ESCLUSIVA | Alì vs Foreman ▷ 50 anni dopo “The Rumble in the Jungle” raccontata da Dario Torromeo

A quasi mezzo secolo da Rumble in the Jungle, Dario Torromeo torna su Alì contro Foreman con uno sguardo d’insieme: dentro e fuori dal ring. Il suo “Re per sempre”, disponibile su Amazon, narra di Kishasa ma non solo. Paolo Marcacci l’ha intervistato sulle luci e ombre di quella notte in cui si consumò uno degli eventi simbolo del Novecento, non solo per lo sport.


Essere a casa di Dario Torromeo per un appassionato di boxe è come per un musulmano arrivare a La Mecca. Quasi mezzo secolo da quella notte di Kinshasa. È il più grande evento sportivo del Novecento?

Io penso proprio di sì. È sicuramente il più importante incontro di pugilato della storia moderna.
È un evento di grandissimo spessore perché coinvolge due personaggi che non sono solo dei pugili. Ali è il più popolare sportivo di tutti i tempi. Foreman in quell’epoca era un campione imbattibile. E poi lo scenario, perché Kinshasa, l’Africa è uno scenario molto particolare all’interno di una nazione che cercava di ripulirsi dei propri peccati attraverso una promozione sportiva come accade tantissime volte. Mobutu, il dittatore dello Zaire, ha investito 11 miliardi di lire di allora per poter promuovere questa immagine dello Zaire nel mondo.

Tra l’altro Mobutu aveva anche la Nazionale, poi i Mondiali del 1974 sotto minaccia costante se avessero preso troppi gol. Allora quanto la Storia passa attraverso la storia di quella notte?

Passa tantissimo. Sembra – ed è quasi assodato – che nei sotterranei dello stadio dove si è disputato il match fossero stati reclusi contestatori, chiunque non avesse la stessa idea del dittatore era schedato.

Lui ha investito soldi del popolo per poter offrire l’immagine sbiancata di quella che era una dittatura veramente crudele.

Mobutu viveva come i personaggi dei film ma purtroppo era la realtà. Si è disinteressato di qualsiasi cosa fosse attorno all’evento perché pensava non gli portasse grande pubblicità. Don King, l’organizzatore dell’evento, ha creato uno spettacolo di musica live eccezionale con tutti i più grandi di allora. Lui non ha voluto investire un dollaro di allora su quell’evento perché pensava che non fosse in grado di portare in giro il suo messaggio, è su quello che si è concentrato – per poi strumentalizzarlo.

Cosa ha guidato a 50 anni di distanza il filo della tua narrativa stavolta?

Ho pensato che nel cinquantenario di Alì – Foreman si scriverà molto. L’intento era provare a dare qualcosa che non si trova negli altri libri. Quindi Ali Foreman è al centro della narrazione, però racconto tutto quello che c’è attorno. Racconto Angelo Dundee, il manager di Ali, il mitico Archie Moore che stava all’angolo di Foreman, John King, i personaggi che hanno accompagnato prima e dopo Ali e Foreman, Joe Frazier, Larry Holmes e tutti quelli che hanno seguito parallelamente – senza incrociarsi – questa vicenda.

C’è anche un match italiano dell’epoca. Gli anni 70 sono al centro di questa storia, perché gli anni ’70, anche per noi, per la società italiana, hanno rappresentato un momento molto importante. Nel 74, l’anno del match, qui in Italia non è che eravamo rose e fiori, cioè c’è il primo rapimento delle BR, c’è la strage dell’Italicus, c’è Piazza della loggia, quindi ci sono molte cose che vanno ad incrociarsi con il match. Il match è al centro, ma tutto quello che c’è attorno ed era generalmente sfumato, io l’ho riportato alla luce.

Hai nominato prima Don King, che pochi anni prima di inventarsi Kishasa era ancora in carcere. Che personaggio è stato, per come lo hai conosciuto?

Don King è un personaggio incredibile. Il suo slogan è “solo in America”, nel senso che solo in America poteva succedere quello che ha fatto Don King, che ha avuto un ruolo importante nella promozione del Pugilato, ma soprattutto di sé stesso. Ha avuto più cause lui di chiunque altro. Non credo ci sia stato un pugile che non l’abbia citato in giudizio per mancati pagamenti.

Tyson è forse il caso più clamoroso…

Sì perché Mike Tyson per tutti gli anni in cui è stato con Don Don King si è sentito dire “tu non ti devi far gestire dai bianchi, tu sei nero, devi stare con i fratelli neri”. Lo pagava con la detrazione per le tasse. Perfetto?
Sì, se le tasse poi fossero versate, perché poi arrivava il fisco americano. Don King è un soggetto molto particolare, però è una persona che ti dà degli elementi se ci parli, perché è uno che ha vissuto male, ma ha vissuto.
L’incontro Ali Foreman non aveva una lira quando l’ha proposto. Ha detto ad Alì “ti do 5 milioni”, poi lo stesso a Foreman. Era una cifra incredibile per l’epoca. Il problema per lui poi fu trovare 10 milioni. Viveva così.

E’ vero il particolare dello staff di Foreman che prega per la vita di Alì prima dell’incontro?

C’è una voce che riporto nel libro e che viene da due scrittori americani, cioè che uno dei manager di Foreman pare avesse proposto dei soldi all’arbitro del match affinché se avesse visto Alì in difficoltà, avrebbe fermato il match.
Poi Alì andò programmaticamente in difficoltà? Angelo Dundee dice che lui aveva consigliato tutt’altra tattica, però Alì non era in grado di fare quella tattica. Non ballava più, era fermo. E gli conveniva aspettare. Certo, rischiava, rischiava molto, perché Foreman aveva una potenza devastante.
Quando faceva il sacco d’allenamento, lasciava i buchi dentro il sacco, quindi era veramente forte. Però quello di Alì era l’unico modo, l’unico modo per poter conservare le riserve fisiche e per scoraggiare Foreman. Perché Foreman fino a quel momento aveva mandato per aria tutti, non aveva mai perso. Era stato uno che si era convinto di essere davvero imbattibile.

Poi però aveva avuto un approccio sbagliato all’evento. All’Africa proprio, se vogliamo, perché Foreman era considerato alla stregua di un bianco…

Per un semplice motivo. Alì lo conosceva in tutto il mondo. Foreman molti degli africani di Kinshasa non sapevano neppure chi fosse, hanno scoperto che era nero quando è sceso dall’aereo. Lui è sceso dall’aereo con il famoso cane lupo, il cane degli invasori. Già lì non è stato molto simpatico. Si è chiuso in se stesso, ha fatto gruppo solo con il suo clan, non è andato in giro. Nel mentre Alì correva con i bambini che gli andavano dietro, correva in mezzo alle strade, fra le case, parlava con tutti.

Alì da punto di vista promozionale era un genio. Il coro Ali Boma ye, cioè Alì uccidilo, rappresentava quello che l’Africa voleva. Tu sei dei nostri, tu sei il nostro re e devi vincere questa sfida con questo gigante cattivo.

Foreman non lo vedevano come nero. L’unico nero sul ring era Alì. Foreman non aveva nessuna empatia con nessuno lì.

È il match più famoso in assoluto, è anche il tuo preferito? Ti chiedo, per esempio, rispetto a Thrilla in Manila contro Joe Frazier.

Thrilla in Manila è la violenza allo stato puro, fatto con grande tecnica. È un capolavoro e ha ragione lì quando dice “la cosa più vicina alla morte”.

Ha ragione Alì quando dice ad Angelo Dundee “io non torno sul ring contro quel pazzo”. Aveva quasi perso i sensi. Non ce la faceva più. Frazier non vedeva, Alì non ce la faceva stare in piedi, ma è un match pazzesco. Rumble in the Jungle è un match… sembra un paradosso, un match tattico. Nel senso che Alì gestisce il match attaccato alle corde per cinque riprese. Ma la cosa che ho notato, riguardando più volte il match, è che tutti noi siamo convinti che Foreman abbia dominato fino al momento in cui nell’ottavo round, Alì dà il primo destro, esce dalle corde e lo mette fuori con un diretto destro devastante. In realtà non è proprio così, forse le prime quattro riprese sì, ma poi il match era abbastanza equilibrato perché i colpi di Foreman a un certo punto per la stanchezza li portava molto larghi e li portava con l’interno, mentre i primi erano dei colpi che arrivavano a segno al povero addome di Alì. Lui ha poi detto di aver urinato sangue. Ha preso dei colpi pazzeschi. Certi colpi te li porti dietro.

Fortunatamente non ha preso tantissimi colpi al volto perché Foreman picchiava sotto, quasi essenzialmente sotto. Però ecco, era stanco anche Foreman e quando è uscito Alì in velocità lo ha preso più volte.
La storiella, che è vera poi, però sembra creata d’arte, di Alì che dice a Foreman “sai fare solo questo” in realtà è proprio vera. Foreman in quel match sapeva fare solo quello.

Poi Alì quando esce alla fine fa un capolavoro e secondo me il capolavoro più grande lo fa dopo che ha messo a segno il destro mentre c’è quell’immagine di Foreman che sta cadendo piegandosi lentamente in avanti, molti avrebbero colpito ancora. Lui invece non vuole rovinare quel capolavoro che ha creato e quindi, vada giù in santa pace: finito il match.

Restano delle ombre nella tua visione, allora come oggi?

Assolutamente no, perché c’è tutto quello che era prevedibile, cioè non era prevedibile che Alì potesse resistere a quelle bordate dei primi quattro round, ma era prevedibile che, fra i due, chi fosse più pugile era Alì. E se Alì fosse stato quello di prima l’avrebbe battuto molto più facilmente.

Le prime cose che ti vengono in mente quando pensi ad Alì oggi?

Alì ha un merito enorme per chi non segue il pugilato assiduamente: Alì ha portato il pugilato in tutte le case del mondo. lo conoscevano le nonne, i bambini, i ragazzini piccoli, i ricchi, i poveri, gli scienziati, i premi Nobel, gli analfabeti… ha divulgato il pugilato in tutto il mondo. Inoltre se tu vedevi un match di Ali, sembrava che non esercitasse potenza, perché era talmente pulito il gesto tecnico… Cioè, Foreman, quando fa saltare per aria Frazier, lo fa rimbalzare proprio in aria. Lì dici “mamma mia!”. Con Alì non lo dici.
Lo dici in un altro modo, in senso positivo, perché ti entusiasmi dal punto di vista del capolavoro tecnico.

Era come non vedere un peso massimo per la gestualità…

Allora, il primo a fare un pugilato di mobilità secondo me è stato Joe Louis, che a mio avviso è il più grande peso massimo di tutti i tempi dal punto di vista tecnico, lo dicono pure i numeri. Ma Alì l’ha esaltato, è un pugne che balla sulle ponte.
Si trovano ancora su YouTube piccoli filmati sulla capacità difensiva di Alì. Alì faceva schivate di due centimetri.
Ad Alì non mancava proprio niente. Ed era anche un pugile che sapeva soffrire sul ring, perché di solito il fuoriclasse assoluto, soprattutto dal punto di vista del talento e della tecnica, ha meno rabbia dentro rispetto agli altri. Lui invece non accettava la sconfitta.
L’unico neo? E’ andato avanti troppo.