La verità sul blackout di Microsoft: che ne è del mondo se non funziona la stanza dei bottoni?

Nei giorni scorsi, come senz’altro saprete, si è prodotto un vero e proprio blackout planetario.
Sì avete inteso correttamente: un blackout globale che ha messo in ginocchio l’intero pianeta.
Le compagnie aeree statunitensi hanno bloccato tutti i loro voli. Sono rimasti fermi gli scali di Berlino e di Sydney, si sono registrati i problemi notevoli in Spagna e ben 50 voli sono stati cancellati all’aeroporto italico di Fiumicino. In Gran Bretagna vi è stato lo stop ai treni. Alla base dei problemi vi sarebbe un aggiornamento: è stata esclusa l’ipotesi dell’attacco hacker.
Qualche pur telegrafica considerazione mi pare davvero doverosa.

Il mondo della digitalizzazione planetaria, a quanto pare, non risolve globalmente ogni problema, ma anzi sembra crearne di sempre nuovi, rigorosamente su scala cosmopolitica. E fa apparire più problematica del previsto la sempre encomiata categoria del progresso tecnologico. Il mondo della digitalizzazione totale sembra denso di contraddizioni, che puntualmente affiorano allorché, come nel caso dei giorni scorsi, si producono i cosiddetti blackout.

Tali casi, sempre più frequenti, dovrebbero indurre una pacata riflessione sulla portata stessa della digitalizzazione, della quale troppo spesso si celebrano solo, in maniera ingenua, gli aspetti positivi, senza mettere in evidenza criticamente quelli negativi, che pure non sono assenti. Provate a immaginare, ad esempio, un mondo in cui i contanti fossero stati integralmente rimossi. Ebbene, in caso di blackout globale non si potrebbe nemmeno più fare la spesa? Si paralizzerebbe la vita dei cittadini? Ma senza arrivare a queste considerazioni indubbiamente estreme, basta anche considerare quello che è accaduto nei giorni scorsi, con voli soppressi e paralisi dei trasporti.

Questo non vuol dire, sia chiaro, che dobbiamo diventare “luddisti digitali”, precipitando in tal guisa nell’errore opposto a quello dei tecnofili dogmatici. Forse dovremmo soltanto prendere pacatamente coscienza del fatto che la sempre encomiata digitalizzazione non può essere integrale e vi sono ambiti nei quali meglio sarebbe seguitare a usare anche i vecchi sistemi non ancora digitalizzati. Soprattutto sarebbe d’uopo, una volta buona, prendere congedo dal pericoloso mito del progresso, la grande religione del nostro tempo, religione che ha sostituito l’idea del paradiso trascendente con la prospettiva del miglioramento tecnico-scientifico illimitato.

Ma come ricordava Adorno, l’idea del progresso è quella che ci porta, in fondo, dalla mega fionda antica all’odierna bomba atomica.
Ecco perché, ragionando criticamente, noi abbiamo bisogno, più che del progresso, dell’emancipazione.
E dobbiamo altresì renderci conto del fatto che già da tempo il progresso procede su un binario opposto a quello della emancipazione.
A tal punto che si potrebbe dire, senza tema di smentita, che quanto più progresso tecnico-scientifico oggi si dispiega, tanta più emancipazione si va perdendo. Perché in fondo il progresso oggi non dice altro che l’avanzata del mercato.
Avanzata del mercato che procede tra teschi e corpi di lavoratori e ceti medi, sempre più martoriati dalla globalizzazione neoliberale.

Radioattività – Lampi del pensiero quotidiano con Diego Fusaro