I numeri sono aridi ma stavolta mettono i brividi. La Roma a meno 15 dalla Juventus. La Lazio è a meno 10. E siamo all’undicesima giornata del campionato. Distacchi già chiari, netti ma la situazione delle due “nostre” della capitale provoca discussioni e riflessioni che portano già a conclusioni. La Roma ha smarrito la propria identità, la Lazio è ancora alla ricerca di un profilo definito. Non ci sono dubbi che la campagna acquisti, anzi vendite, di Monchi abbia provocato una crisi tecnica e, quindi, tattica alla squadra e al lavoro di Di Francesco. Il quale non ha ancora deciso quale sia lo scheletro di gioco, cambiando per scelta o per emergenza, il disegno e gli interpreti. La partita di Firenze ha ribadito i limiti ma, in altre occasioni, il rigore inesistente fischiato a favore della Fiorentina (non è il primo e non sarà l’ultimo), in altre occasioni e con altri avversari e con ambizioni differenti di classifica, avrebbe fatto saltare il tappo della tifoseria e della squadra contro il potere del nord o affini.
Stavolta, invece, il manipolo di tifosi ha urlato contro la dirigenza e qualche calciatore, mettendo da parte i veleni contro l’arbitro, protagonista di un oltraggio all’intelligenza e al regolamento. La Roma annaspa, ha paura di se stessa, si rianima per caso, il gesto di uno dei suoi, una parata, un gol, un dribbling ma resta sconosciuta nella sua identità. L’immagine della tribuna d’onore del Franchi è stata per me desolante, Monchi, avvilito, con le mani a reggere un viso troppo pesante o pensante, al suo fianco Totti presente-assente, mai una smorfia di gioia o di incazzatura, prima, durante e dopo. Ecco la Roma, prescindendo da Pallotta che sta a Boston anche quando è a Roma. Non serve il ritiro forzato, serve un leader vero, non carismatico, serve un padrone, un uomo che faccia scattare il silenzio e l’ordine. De Rossi è pure in mutua, il resto è impiegatizio.
Di contro la Lazio fa il suo con avversari inferiori ma va a sbattere il muso quando l’impegno sale. Dunque non ha ancora trovato l’autostima, quella spavalderia psicologica e comportamentale che la porterebbe a spolverarsi di dosso la mentalità di margine. Se nella Roma mancano i capi o il capo alla Lazio un capo c’è ma è silente per la squadra mentre è combattivo per le proprie mire politiche. La Lazio di Immobile non si discute ma la Lazio di Milinkovic Savic è ancora in sala d’attesa, una promessa e una premessa di campione che è il sottotitolo della squadra, il suo riassunto: c’è la qualità, manca la fame, abbonda la fama che è un’altra cosa. Inzaghi ha la testa dura, si porta appresso le cocciutaggine tipica di un attaccante, non media con se stesso, non ha l’elasticità necessaria per modificare idee e scelte e questo comporta errori ed omissioni in un gruppo che, appunto, necessita di coerenza e costanza. La classifica comunque la premia, il quarto posto, per ora, è giusto ma fa schiumare rabbia per le occasioni perdute, non sempre per merito dell’avversario.
Si resta, dunque, nel limbo, sognando, sperando, mai certi di potere, di dovere, rassegnati quasi a galleggiare, senza mai prendere il largo, la Roma su una zattera, la Lazio su un gozzo.
E questo non è roba da capitale.
Tony Damascelli