Se il referendum del 2016 è stata la scommessa (persa) dell’allora premier David Cameron per regolare i conti all’interno del Partito conservatore, il voto del 15 gennaio alla Camera dei Comuni rischia di essere il definitivo redde rationem tra i Tories. Ma in ballo non c’è solo il futuro del partito che fu di Margaret Thatcher, sempre critica con l’Europa, ma mai tentata dall’avventura di volerne uscire, o quello della premier Theresa May. In gioco c’è la Brexit e con essa, che si realizzi in maniera ‘ordinata’ o in forma ‘hard’, è in gioco anche il futuro del Regno Unito e quello della Ue, che dal divorzio più o meno consensuale da Londra rischia di uscire, almeno nell’immediato, piuttosto ammaccata.
Dopo il rinvio del voto inizialmente previsto per l’11 dicembre (se si fosse votato allora la bocciatura sarebbe stata sicura), i 650 membri dei Comuni sono finalmente chiamati ad esprimere il loro giudizio sull’accordo faticosamente negoziato con la Ue dalla premier. Theresa May, stando alle dichiarazioni dei vari schieramenti, non dispone dei numeri necessari a fare approvare e ratificare l’accordo.
Se anche potesse – e non può – contare su tutti e 317 i voti dei Conservatori, la premier sarebbe comunque lontana dalla maggioranza. Le sarebbero necessari i 10 voti del nordirlandese Democratic Unionist Party, che finora hanno sostenuto il suo governo di minoranza nato dopo le elezioni anticipate del giugno 2017. In quell’occasione, la May aveva sperato di rafforzare la già solida maggioranza di cui disponevano i Tories. Ne è uscita azzoppata, con conseguenze che inevitabilmente hanno finito per influenzare la sua capacità di manovra politica, sia in patria che a Bruxelles.
Il Dup ha da tempo annunciato che voterà contro l’accordo. Per gli unionisti nordirlandesi quanto previsto dal ‘backstop’, la clausola di salvaguardia che dovrebbe entrare in vigore per mantenere aperto il confine tra le due Irlande, è per loro “inaccettabile”. Il backstop scatterebbe nel caso Londra e Bruxelles non riescano a negoziare un nuovo accordo commerciale complessivo nella fase di transizione post Brexit, che terminerebbe a fine 2020. In quel caso, non solo l’intero Regno Unito rimarrebbe ancorato all’unione doganale europea, ma entrerebbero anche in vigore norme doganali e regolamenti parzialmente diversi tra l’Irlanda del Nord e il resto della Gran Bretagna.
La premier May sostiene che il backstop scatterebbe solamente come soluzione estrema e per un periodo di tempo limitato. Né gli alleati del Dup, né almeno un’ottantina dei suoi stessi deputati si fidano delle sue rassicurazioni. In particolare, gli euroscettici conservatori che si raccolgono nell’European Research Group, il gruppo guidato dal deputato Jacob Rees-Mogg, contestano alla premier che un backstop indefinito annullerebbe qualsiasi vantaggio della Brexit. Rimanendo legato all’unione doganale europea, il Regno Unito avrebbe di fatto le mani legate e non potrebbe negoziare vantaggiosi accordi commerciali con Paesi terzi, come gli Usa, la Cina e l’India. Londra subirebbe tutti gli obblighi che derivano dall’appartenenza alla Ue, senza però avere più potere di veto e accesso alle decisioni.
E’ per questo che la premier, dopo il rinvio del voto dell’11 dicembre, ha continuato a negoziare più o meno discretamente con Bruxelles per avere “ulteriori garanzie” sulle modalità e la temporaneità del backstop. Ma finora, tutto ciò che è giunto da parte della Ue, al di là dei toni cordiali, è il netto rifiuto di rimettere mano al testo dell’accordo e a quello della dichiarazione politica che lo accompagna, sui futuri rapporti tra Londra e Bruxelles. Alla fine, si potrebbe arrivare a uno scambio di lettere di intenti, ma è difficile che il Dup e la fronda dei Conservatori si accontentino di così poco.
Consapevole di non poter contare su una maggioranza, la May ha rivolto lo sguardo anche a sinistra. Anche su questo fronte però, ha trovato le porte chiuse. I sindacati, ai quali ha promesso garanzie in termini di leggi e tutele sul lavoro dopo l’uscita dalla Ue, hanno negato qualsiasi appoggio. Lo stesso ha fatto l’opposizione Laburista, che punta a una bocciatura dell’accordo in Parlamento per sfiduciare il governo e chiedere elezioni anticipate. L’obiettivo finora dichiarato del leader Jeremy Corbyn non è un secondo referendum, ma la vittoria elettorale, per poi poter rinegoziare con Bruxelles i termini della Brexit.
Ma nemmeno il Labour è compatto e non tutti i 257 deputati laburisti sono d’accordo con la strategia del leader. Un centinaio di deputati sono contrari all’accordo, ma favorevoli a un secondo referendum. Ci sono poi almeno 5 deputati pro Brexit, che appoggiano l’accordo negoziato dalla May e un numero più o meno ristretto di ‘responsabili’ ai quali la premier sta facendo appello per non far bocciare l’accordo e gettare il Paese in un caotico scenario di ‘no deal’. Nessuna possibilità invece per la May di ottenere l’appoggio dei 35 deputati scozzesi dello Scottish National Party, da sempre contrari alla Brexit e favorevoli a un secondo referendum, o della ristretta pattuglia dei Liberal democratici, già schierati con 11 no e (un solo sì) contro l’accordo.
I numeri, quindi, non ci sono. Gli analisti, infatti, hanno smesso di interrogarsi sull’esito del voto e da giorni si esercitano solamente sulle proporzioni della sconfitta che la premier subirà. Più sarà pesante la bocciatura, meno probabilità avrà la May di andare a Bruxelles per tentare di cambiare il testo dell’accordo e ripresentarsi dopo 14 giorni (così prevede il regolamento parlamentare) davanti ai Comuni, sperando in un esito differente.
Nel frattempo, c’è chi si esercita sugli scenari che potrebbero derivare da un ‘no deal’, ipotizzando cosa potrebbe accadere all’indomani del 29 marzo, data della Brexit. Senza il paracadute della fase di transizione e con la cessazione immediata delle attuali regole che governano i rapporti tra Gran Bretagna e Ue, si va da chi immagina un’interruzione dei voli commerciali, conseguenze incalcolabili per le imprese, file infinite di Tir ai porti d’imbarco per la Manica e farmacie e supermercati costretti a chiudere per mancanza di approvvigionamenti dal Continente. Dall’altro, i più ottimisti tra i Brexiteers, che sostengono che non accadrà nulla di tutto questo e che il Regno Unito, come accaduto tante volte nella sua storia, saprà resistere come sempre.
La verità, probabilmente, sta nel mezzo. Ci saranno disagi, immaginano gli osservatori più accorti, ma gli interessi in gioco sono troppo grandi perché Londra e Bruxelles si abbandonino al caos. Come ‘ultima spiaggia’ si potrebbe attivare da parte britannica una proroga dell’Articolo 50, con una ripresa del negoziato, che a quel punto potrebbe avere, sia a Londra che a Bruxelles, interlocutori completamente nuovi.