Le elezioni europee del 26 maggio irrompono nel dibattito congressuale Pd. A fare lo scarto in avanti è Nicola Zingaretti che lancia la proposta di una lista unitaria con “il protagonismo degli intellettuali del mondo della ricerca e della scuola, del mondo del lavoro, dei giovani e dell’associazionismo”. Un progetto aperto tanto che il governatore del Lazio mette sul tavolo anche il simbolo del Pd: “Non è un dogma, ma questo poi lo decideremo”.
E se il progetto di una lista unica fa proseliti, sulla faccenda del simbolo ci sono distinguo. Maurizio Martina, avversario di Zingaretti nella corsa alla segretaria Pd, puntualizza: “Dobbiamo promuovere una lista aperta che si rivolga ai tanti democratici e riformisti che vogliono battersi per la nuova Europa” ma “per me non si tratta di rinunciare al simbolo Pd” che “è un patrimonio di cui andare orgogliosi” ma semmai “di concorrere a una proposta più larga”.
Il tema del campo largo trova subito la condivisione di Carlo Calenda che, da tempo, si batte per la creazione di un Fronte Repubblicano e che sta lavorando a un manifesto che interpreti i valori di questo progetto. Per Calenda, che ci sia o meno il simbolo del Pd o di altre formazioni, quello che conta è che si arrivi a costruire “una lista unitaria delle forze europeiste. Sono assolutamente disponibile a candidarmi alle elezioni europee qualora si formi una lista unitaria delle forze europeiste”, spiega. “La questione se insieme al nome delle lista, rimangano o meno i simboli dei partiti che la comporranno -puntualizza dell’ex-ministro- non mi appassiona”.
Zingaretti non nasconde che, se sarà segretario, vorrebbe proprio Calenda tra le candidature di punta alle europee. E pure Martina guarda alle mosse dell’ex-ministro. “So che Carlo Calenda insieme a tanti altri sta lavorando a un Manifesto di progetto e guardo con molto interesse a questo sforzo”.
Calenda sarà con Martina il 29 gennaio a Milano a un’iniziativa e sempre a Milano domani con Zingaretti ci sarà l’attuale sindaco Giuseppe Sala e pure l’ex, Giuliano Pisapia, allontanatosi dai riflettori dopo la rinuncia a promuovere una lista di sinistra alleata al Pd alle politiche del 4 marzo.
Una rinuncia per ‘incompatibilità’ con il Pd renziano che vide il punto di rottura sulla rinuncia dem a portare in aula lo Ius Soli. E dalle parti dell’area renziana arriva da Antonello Giacomelli (vicino a Luca Lotti e sostenitore di Martina) un commento al vetriolo su Zingaretti: “Zingaretti di fatto propone di sciogliere il Pd per una Cosa nostalgica con D’Alema, Bersani, Fratoianni. Magari per allearsi con i ‘compagni che sbagliano’ del M5S. Lecito? Certo. Ma perché si candida a guidare un partito di cui non condivide il progetto e di cui si vergogna?”.
Per Francesco Boccia, candidato al congresso dem, la lista unitaria è un progetto da perseguire. Ma specifica: “Prima di parlare di liste dobbiamo capire quali sono i valori con cui il Pd esce dal congresso. Le liste si fanno sui valori”. E quelli di Boccia guardano a sinistra. “Per capirci: una cosa è En Marche. Un’altra è una nuova alleanza sociale. Il problema non è se facciamo una lista, ma per cosa la facciamo. Se è per unire o se è per prendere qualche voto in più con quelli che poi il giorno dopo si dividono da noi, non ha senso”.
Per una lista unitaria si rivolgerebbe ai fuoriusciti Pd? “Chi è uscito ha sbagliato. Ma a me hanno insegnato -dice Boccia- che la politica guarda al futuro, non al passato. Io guardo alla possibilità di mettere insieme i Verdi tedeschi, Corbyn, Podemos, i socialisti portoghesi. Una lista ampia e unitaria in Europa. Se fai questo, metti dentro tutti nel Pd. Lo sanno Vendola, Civati, Laforgia, Bersani, Bonelli dei Verdi. Per me non ha senso che stiamo in partiti diversi. Il Pd può essere il partito di tutti”. E sul simbolo: “Non lo so, vedremo. Il simbolo del Pd e quello dell’Ulivo ce li ho nel cuore”.
Per i sondaggisti se alla fine il Pd dovesse rinunciare al simbolo per favorire una lista unica, non sarebbe un problema perché ormai è tutta una questione di leadership. Il simbolo “può essere accantonato per le europee e anche sostituito”, ma “si tratta di una operazione che può funzionare solo se la leadership del partito diviene forte e autorevole”. Osserva Renato Mannheimer: “Una volta nella Prima Repubblica, il simbolo era essenziale, gli elettori votavano il simbolo più che il leader. Oggi cambiarlo potrebbe essere pericoloso ma non disastroso visto che conta più il leader”. E comunque, sottolinea Maurizio Pessato di Swg, un conto sono le europee ma sarebbe “molto più difficile” cambiare il simbolo “sul piano nazionale” alle politiche.