L’UE è in stato vegetativo. L’Europa al microscopio – PARTE I

Non so spiegare perché di fronte a un malato, in questo caso il corpo dell’Europa, ci siano così tanti “dottori” che vogliono, ognuno con il proprio metodo, prescrivere una ricetta di guarigione, “vendendola” come la migliore sul mercato. Come quando all’ospedale siamo di fronte a un paziente in stato vegetativo e piuttosto che far fare alla natura il suo corso, si cerca in modo ostinato di farlo sopravvivere. È questa perseveranza, sotto il profilo peggiore, che mi spaventa. Bisognerebbe partire da questi semplici assunti per essere consapevoli che, per quanto attraente possa essere l’idea di Europa, nel suo senso più intimo, probabilmente essa è stato un miraggio o ancor peggio un abbaglio.

Facciamo un passo indietro. L’Europa che tutti noi viviamo è stata prima idea e poi figlia di leader che al tempo vennero considerati visionari ma che ad oggi si possono definire lungimiranti. Su un elemento possiamo essere tutti d’accordo: senza la loro passione, determinazione e visione di lungo termine non potremmo vivere quest’epoca di pace nel nostro continente che, forse, ognuno di noi alle volte dà per scontata. Senza il loro contribuito la nostra Europa sarebbe probabilmente “calata” in un periodo di tenebre. I sostenitori di questa nobile Idea erano un gruppo eterogeneo proveniente chi dalla classe politica, chi dalla schiera di avvocati o dalla Resistenza ma legati e mossi da ideali comuni: la pace, l’unità e la prosperità.

Come non poter pensare a Winston Churchill, uomo politico che ha retto le sorti del Regno Unito e che è stato uno dei primi ad invocare l’idea di costituire gli Stati Uniti d’Europa e che dichiarò “dobbiamo ricostruire la famiglia dei popoli europei in una struttura regionale che potremmo chiamare Stati Uniti d’Europa, e il primo passo consisterà nella creazione di un Consiglio d’Europa. Se, all’inizio, non tutti gli Stati vorranno o saranno in grado di partecipare all’unione, dobbiamo ciò nonostante andare avanti e unire gli Stati che vogliono e che possono”.

Di passi in avanti se ne sono fatti, così come sono stati compiuti passi indietro. L’esistenza dell’Unione ha comportato e comporta vantaggi, maggiormente in un mondo così interdipendente e globalizzato quale il nostro: garanzie solide di pace, liberalizzazione degli scambi commerciali, elementi di stabilità generati dall’appartenenza ad una moneta unica come l’euro, sono tutte conquiste a cui non si può rinunciare. Qualcosa nell’ingranaggio della macchina europea si è però inceppato. Con questo mia affermazione non vorrei essere messa nelle fila di coloro che inneggiano ad un ritorno al passato, alla lira, ciechi di fronte all’evoluzione dell’assetto dello stato attuale e non simpatizzo neanche per coloro che chiedono un più Europa, asseverando che le cinghia che ci tengono uniti debbano essere ancor più stringenti, anch’essi miopi dinnanzi ai problemi che attanagliano molti tra i paesi membri europei. Di difficoltà ce ne sono state e ce ne sono, ma la soluzione non è eliminare e seppellire tutto, un rimedio sarebbe comprendere a fondo cosa non va e come superare questa crisi, adattando e rinnovando l’idea di Unione.

Cerchiamo di capire se la convinzione di unirsi economicamente e politicamente possa portare a tutti vantaggi creando una convergenza economica nell’area euro, perché in fondo sono queste le basi che hanno portato a creare l’istituzione che oggi chiamiamo Europa. Già dagli anni ’60 Robert Mundell diede il suo contributo a quella che oggi è conosciuta come la teoria delle Aree Valutarie Ottimali. La domanda che ci poniamo è semplice: conviene adottare una moneta unica? Se sì, quanto conviene?

Affinché la moneta unica diventi sostenibile, due o più Stati che vogliono legarsi economicamente potrebbero cominciare ad unificare i sistemi educativi per abbattere le barriere culturali e linguistiche, armonizzare i mercati del lavoro fra i paesi membri, adottando tipologie di contratto riconosciute dall’unione, costituendo e rendendo possibile la creazione di sindacati capaci di garantire una tutela transnazionale dei diritti dei lavoratori. Contemporaneamente bisognerebbe integrare e allineare i sistemi di welfare per raggiungere uno standard di cittadinanza europea. In seguito alla realizzazione di questo iter si potrebbe pensare a forme di integrazione fiscale graduali necessarie per compensare gli squilibri fra paesi. Solo alla fine dotarsi di una moneta unica non sarebbe pericoloso: il vantaggio più che economico sarebbe psicologico, far nascere e consolidare il senso di una comune identità. In Europa si è percorsa questa strada? Le tappe seguite sono state esattamente al contrario: si è infatti deciso di partire dall’adozione della moneta unica, anche perché i governi hanno sempre ostacolato la rinuncia alla sovranità in altri campi più sensibili, come quello fiscale.

Cosa è successo? Molti ritenevano che, l’introduzione della moneta unica sarebbe stata in grado di determinare nel medio-lungo periodo modificazioni nei paesi europei, al loro interno e nei loro rapporti, tali da favorire la creazione di un Area valutaria ottimale ex post; oppure si credeva nell’idea del wishful thinking, secondo cui la moneta unica avrebbe creato automaticamente una comune identità europea. Purtroppo tale convinzione è stata tragicamente smentita dai dati. Probabilmente l’Europa più che un’area ottimale si può definire una “bad area”.

Tratterò nel prossimo articolo di Italia e Germania, confrontando le loro economie sotto il profilo del Pil pro capite per ciascuna regione ed analizzerò le variazioni intercorse tra il 2006 e il 2015.

Vedremo al microscopio come l’Unione, il nostro paziente, non è così in buona salute come molti “tecnici” dicono.

Roberta Novacco