Per chi l’ha vista, per chi ancora aspettava e sognava di vederla; per chi ricorda la magnificenza austera e cupa che si para davanti al viandante, o al turista, nel piazzale, davanti alla facciata principale; per chi ha avuto la fortuna di avvicinarsi alla Cattedrale passeggiando, in una giornata d’autunno parigino, col cielo malinconico ma non ancora scuro; per chi ha percorso le navate facendosi ipnotizzare dai fasci di luce intinti nei colori delle vetrate. O per chi, semplicemente, associa il suono, duro e soave in sequenza, di quelle due parole alle pagine che ha letto, alle note ascoltate, alle suggestioni di ogni tipo di arte impigliate tra quelle guglie che sembravano eterne.
In ogni lingua; per ogni cultura.
Sarebbe molto più semplice, dovrebbe essere molto più naturale, ricordare che i monumenti e le opere d’arte non sono mai soltanto monumenti o opere d’arte: sono passeggiate di milioni di prime volte da innamorati, o sfondo privilegiati di addii dolorosi; incontri casuali che nel cono d’ombra di quelle mura secolari ci hanno cambiato l’esistenza; pretesto per fotografie di quando eravamo qualcun altro, in una vita che sembrava diversa o che è diventata migliore; proiezioni dei nostri desideri per i viaggi da ripetere, o che ancora sogniamo di fare.
Ecco perché, adesso che l’unghia di un qualche dio maldestro sembra aver graffiato il cielo di Parigi lasciando cicatrici di fumo, l’unica cosa che davvero avrebbe senso fare sarebbe ricordarsi, senza nemmeno doversi concentrare ma lasciandosi guidare da un istinto comune, di quanto certi luoghi servano a rammentare a noi europei che siamo tutti fratelli in una cultura in cui riconosciamo l’intrico delle nostre radici e in una storia che da angoli diversi continua a raccontarci chi siamo.
Per questo la cicatrice di un francese non può diventare la piega idiota di una risata italiana. E viceversa, ovviamente.
Solo questo.
Invece di ripensare alle vignette di Charlie Hebdo, che in passato hanno offeso la stessa satira, oltre che diverse vittime, ricordiamoci di tutte le volte in cui, per motivi diversi, socchiudendo gli occhi abbiamo pronunciato: Notre-Dame.
Paolo Marcacci