Era più che prevedibile che l’OCSE raccomandasse il fatto che alcuni provvedimenti dell’attuale Governo, sia Quota 100 che Reddito di Cittadinanza, non servissero per la crescita. E’ cosa piuttosto nota che l’OCSE, di fatto, pur non citandole, persegua politiche di austerity. Il motivo è che per loro il problema principale è il debito e, sempre secondo le loro convinzioni, il debito si riesce ad abbattere non tramite la crescita – come dovrebbe essere più che logico – ma tramite il taglio della spesa e l’aumento della pressione fiscale. Consideriamo che sono più di vent’anni che siamo in avanzo primario, cioè spendiamo meno di quello che incassiamo con le tasse.
E’ anche notorio che l’OCSE non consideri il cosiddetto effetto sostituzione per quanto riguarda le persone andate in pensione. Cioè non crede che a fronte di persone che vanno in trattamento di quiescenza, possa essere utile rinnovare con nuovo personale. Una cosa che non considerano non soltanto nei confronti dell’Italia, ma a livello generale come principio.
Previsioni sistematicamente sbagliate
Altra cosa: ma possiamo sapere quando l’OCSE ha fatto delle previsioni che poi si sono rivelate giuste? Vale anche la pena ricordare che queste previsioni annunciate e poi sistematicamente sbagliate non riguardano solo l’Italia, riguardano praticamente tutti gli altri paesi. Questi esercizi, che non solo l’OCSE ma anche gli altri organismi internazionali periodicamente fanno, alla fine vengono clamorosamente smentiti dai fatti. Perché tecnicamente sono talmente tante e imponderabili le variabili che vanno a influire sul risultato, che è praticamente impossibile prevederle.
Il gap storico del Pil italiano
Noi sappiamo – e questi sono dati oggettivi, veri, a posteriori – che l’Italia da più di vent’anni cresce molto meno della media dell’Unione Europea. E’ un dato di fatto, non è una previsione. E sappiamo, sempre da questi dati reali, che l’Italia ha storicamente un gap nei confronti della crescita della Germania che è valutabile intorno a un punto percentuale (1%) di Pil. La Germania è il nostro riferimento perché abbiamo un interscambio tra i più forti e perché dopo di loro siamo la seconda impresa manifatturiera. Visto che l’economia tedesca è in forte rallentamento, con una produzione industriale ai minimi dal 2012, e visto che sono stati rivisti a ribasso più volte i tassi di crescita dell’economia tedesca, gli ultimi indicano intorno a 0.8/0.9, va da sé che applicando quel gap storico anche noi ci ritroviamo in situazione di disagio.
Anche gli altri organismi internazionali e nazionali non sono esenti da questo tipo di previsione. Il fatto che l’Italia si trovi in una situazione di recessione è piuttosto logico, visto che c’è un andamento a livello continentale e mondiale negativo. Addirittura la stessa Cina accusa qualche colpo, ben lontano chiaramente da qualsiasi numero di crisi visto che viaggiano sempre a dei tassi di incremento di Pil sempre molto forti, ma meno rispetto a quelli del passato e questo rappresenta un segnale inequivocabile del trend economico mondiale. Si sta raffreddando.
Il problema è nel modello economico
Noi dovremmo adesso farci delle domande sui i motivi per i quali da più di vent’anni l’Italia è sotto la media europea. A nessuno di questi organismi internazionali balena l’ipotesi che l’Italia abbia abbracciato un modello economico che non è ideale per il suo DNA. Però queste analisi non vengono evidenziate. Cioè nessuno si domanda il motivo per il quale l’Italia da vent’anni sia sotto la media europea nonostante ci siano stati tutti i governi, di tutti i colori, di tutte le coalizioni. E’ chiaro che non è un problema di guida politica, ma di modello economico che noi abbiamo adottato e che tuttavia nessuno riesce a modificare.
La polemica
Fa un certo effetto leggere di raccomandazioni, come quella di non fare Quota 100 e ripristinare in toto il sistema Fornero, fatte da parte un organismo internazionale, per l’appunto OCSE, i cui dipendenti possono andare in pensione anche a 51 anni con minime penalizzazioni. Già da questo si capisce la credibilità.
Antonio Maria Rinaldi