Lazio, tutto in una notte

E così ci siamo, si gioca la finale di Coppa Italia, il torneo che la Juve ha dominato negli ultimi quattro anni, bissando ogni volta il trionfo in campionato. Già, se ci pensate è da qui che bisogna ripartire. Per mille e cinquecento giorni, uno più uno meno, per quattro anni appunto, il tempo che intercorre nientemeno che da un Mondiale all’altro, qui da noi vincono e hanno vinto soltanto i bianconeri. Nessuno, tra campionato e Coppa, è riuscito a mettere la testa fuori. Un privilegio che – allo scoccare del quinto anno – stavolta riuscirà a una tra Atalanta e Lazio, che tra l’altro non si contendono soltanto un trofeo, reso ancora più importante dal digiuno che tutti i club italiani hanno dovuto sopportare, ma si giocano anche la possibilità di affrontare la Juve di Ronaldo nella Supercoppa italiana. Come dire che, insieme al prestigio e alla bacheca, ballano anche parecchi milioni di euro, tra incasso e diritti tv di una partita che – si è visto – fa gola anche fuori dall’Italia, tanto più dopo l’arrivo dell’asso portoghese.

Atalanta-Lazio è una sfida dai mille significati, con due facce ben distinte della stessa medaglia. Serve a Inzaghi per salvare la panchina, a Lotito per ricucire ancora quel rapporto che spesso si sfilaccia con il proprio pubblico, alla Lazio per garantirsi un posto nelle Coppe che altrimenti – attraverso il campionato – rischia concretamente di sfuggire. Insomma, una serie di condizioni diciamo così da tutelare. Differente, completamente opposto, il discorso che riguarda invece l’Atalanta, che a questa finale chiede di raddoppiare, rendendo ancora più scintillante, la soddisfazione grande di una stagione in copertina. L’Europa dei nerazzurri, a differenza della Lazio, non passa da questo atto dell’Olimpico. L’Atalanta ci andrà comunque e, confidando in queste due ultime partite con Juve e e Sassuolo, potenzialmente addirittura dalla porta principale, quella della Champions.

Percassi, con i suoi tifosi, ha un rapporto straordinario e non sarà questa partita a renderlo più o meno forte: il legame è già d’acciaio, corroborato da una crescita continua che ha reso il sodalizio inossidabile. Resta Gasperini che, a differenza di Simone Inzaghi, non gioca per salvare la panchina, per chiedere un futuro. Anzi, il quadro  è esattamente opposto. Questa stagione favolosa, una perla di una collana già ricchissima, lo ha messo al centro dell’attenzione generale. La Juve, il Milan, la Roma, la stessa Lazio, qualche sirena estera: in tanti – e verrebbe da dire finalmente – si sono accorti di questo allenatore che coniuga alla perfezione tradizione e modernità, gusto del bel gioco e libera interpretazione dei giocatori, corsa e attesa, come sanno fare soltanto le squadre che non rappresentano… un modello.

Già, perché l’Atalanta di Percassi, Gasperini, di Gomez, Ilicic, dei tifosi, non è un modello – perché i modelli un po’ come gli stili passano – e non è una favola. L’Atalanta, a differenza di quanti abusano del termine, è un Progetto. Di sviluppo societario, di gioco, di solidarietà, di appartenenza, di condivisione, lavoro e sacrificio. Impossibile dire quanto saranno ancora forti le sirene. Possibile però entrare nei pensieri dell’allenatore: ma davvero, esattamente come un’emozione, si può interrompere un Progetto?

Alessandro Vocalelli