Il Trattato di Maastricht prevedeva la possibilità di poter tornare, dopo “l’entrata” nell’eurozona, alle proprie valute di provenienza. Tale condizione non è esplicitata da articoli o appendici del Trattato stesso, ma si può ricavare da omissis. D’altronde anche nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, eravamo stati messi al corrente che sarebbe stato possibile uscire dall’Unione, poiché in uno degli articoli dell’accordo era, in questo caso, chiaramente prevista la possibilità per un membro di poter recedere dall’appartenenza all’Unione Europea.
In particolare, l’articolo 50 del Trattato prevede una precisa procedura di recesso volontario e unilaterale di uno stato membro dall’appartenenza all’Ue, che va a modificare parzialmente il Trattato sull’Unione Europea. Pertanto, la domanda sorge spontanea: come mai questa eventualità non è ugualmente contemplata e chiaramente espressa riguardo la possibile volontà di uno stato membro di voler recedere anche dalla moneta comune?
C’è di più. Nel tracciare la possibilità di uscita di uno stato dall’Unione si prevedeva anche l’eventualità di un rientro futuro con lo stesso iter previsto per una nuova adesione. Si può, quindi, affermare che i Trattati, oltre a contemplare la possibilità di uscire dall’Ue e conseguentemente dall’euro, danno comunque la possibilità di continuare a far parte della comunità, pur recedendo dall’accordo monetario, e di poter uscire temporaneamente sia dall’Unione europea sia dalla moneta unica per poi, eventualmente, rientrarvi. (La storia europea ci insegna parte di questa lezione con la Brexit).
I dati riguardo la crescita e i processi di convergenza tra il centro e la periferia europea mostrano un quadro alquanto drammatico.
Si può affermare che la permanenza dei secondi nell’euro, vincolati sempre più alle politiche restrittive, stia producendo effetti sociali ed economici alquanto spaventosi. Da qualche anno, nella letteratura economica è nato un dibattito sull’uscita o meno dei paesi membri dell’Unione Europea dall’euro che ha visto la creazione di due fronti, l’uno favorevole, costituito da coloro che vedono nella moneta unica l’origine di tutti i mali e l’altro, invece, contrario e formato dai sostenitori dell’euro.
Nell’estate 2012 si è svolto il Wolfon Economic Prize, una competizione nella quale hanno partecipato più di 400 economisti e il cui tema era la proposta di una strategia sicura di uscita dall’euro per i paesi in crisi. Tra le numerose analisi spiccano per interesse quelle di Jens Nordvig, Nick Firoozye e di Roger Bootle, vincitore del premio.
Jens Nordvig e Nick Firoozye
Sono economisti di una nota società finanziaria giapponesi che hanno presentato il loro piano riguardo la possibile “rottura” dell’euro, partendo da un’analisi di cosa distingue tale evento da altri episodi spesso portati a paragone. A parere degli autori, ci sono tre ragioni principali per cui è difficile usare le passate esperienze come modello per gli sviluppi nella zona euro oggi: la prima è la dimensione dell’economia dell’Eurozona e dei suoi mercati finanziari; poi il suo grado di sviluppo finanziario e infine il ruolo dell’euro come valuta internazionale.
Secondo i due analisti l’uscita di un singolo paese dall’eurozona non sarebbe semplice, in quanto se da un lato possono esservi dei vantaggi in termini di svalutazione del cambio, dall’altro la rilevanza del debito estero potrebbe diventare rilevante per alcuni paesi. La loro proposta è invece quella di una dissoluzione concordata e dell’uscita contemporanea di almeno un gruppo consistente di tre o cinque paesi Piigs.
Secondo gli stessi l’eurozona dovrebbe tornare al vecchio Sme: dopo l’iniziale svalutazione, le monete nazionali dovrebbero rimanere legate da un cambio semi-fisso. E, cosa ancor più rilevante, l’euro dovrebbe essere sostituito da una nuova moneta virtuale, l’ECU-2, sul modello del vecchio ECU. I debiti internazionali di questi Stati dovrebbero almeno in parte rimanere denominati in questa valuta “virtuale”, il cui valore sarebbe determinato dalla media ponderata delle valute nazionali europee. Questo eviterebbe, o almeno mitigherebbe, il panico finanziario provocato dalla morte della seconda valuta di riserva mondiale. La soluzione di Nordvig e Firoozye è quindi tutt’altro che l’uscita dall’euro sic et simpliciter ma piuttosto la creazione di un’unione monetaria meno rigida.
Roger Bootle
Mentre l’analisi di Roger Bootle prospetta che gli Stati interessati, a seguito di una decisione assunta in totale segretezza e con un mese di anticipo dai propri governi, dovrebbero uscire dall’euro dando all’Unione Europea, agli altri Stati membri, alla Banca Centrale Europea e alle istituzioni finanziarie internazionali un preavviso di soli tre giorni, possibilmente il venerdì in coincidenza con la chiusura delle Borse.
In nessun modo l’uscita dall’euro comporterebbe la contestuale uscita dall’Unione Europea, anzi sarebbe sconsigliabile farlo in quel momento, a prescindere da ogni eventuale valutazione politica successiva. Conseguentemente si provvederebbe a rifornire il sistema bancario della nuova valuta nazionale appena stampata dalla Zecca, e solo per le piccole transazioni si potrebbe autorizzare l’uso provvisorio dell’euro. La Banca Centrale, peraltro, dovrebbe immediatamente trasferire liquidità nel sistema bancario nazionale per garantire la funzionalità di tutte le transazioni economiche. Il cambio tra la nuova valuta e l’euro dovrebbe essere di uno a uno. Lo stesso debito pubblico dovrebbe essere ridenominato nella nuova moneta.
Chiaramente la prospettiva di una svalutazione della nuova moneta sarebbe più che probabile. Nei confronti dell’estero, invece, la svalutazione favorirebbe da un lato le esportazioni, dall’altra renderebbe meno convenienti le importazioni e più vantaggiosi gli acquisti di beni e servizi interni, incentivando quindi la ripresa produttiva e occupazionale. Contestualmente, le maggiori esportazioni comporterebbero una maggiore richiesta della nuova valuta nazionale e una sua conseguente rivalutazione, secondo quel meccanismo naturale dell’economia che è stato abbandonato dagli Stati che hanno optato per tassi di cambio fissi o addirittura per una unione monetaria. Di conseguenza, dovrebbe essere accettata la libera fluttuazione dei cambi.
Tali proposte potevano rappresentare uno “starting point” praticabile sul piano politico in quanto rimanevano all’interno del perimetro dei trattati. Invece, la loro praticabilità ed attuabilità si è dimostrata assente.
Nessun governo, purtroppo, ha aperto il capitolo del disegno originario dell’euro dato l’assetto istituzionale e il quadro di policy. La musica è rimasta sempre la stessa, il dibattito è continuato a scorrere lungo gli stessi binari: la ricetta è giusta, sono i governi dei paesi periferici a scaricare i loro comportamenti irresponsabili sui virtuosi governi del nord.