/ E al dio degli inglesi, non credere mai /
Fabrizio De André, Coda di lupo
Spiegare la Roma agli “infedeli”: una crociata pagana (pagana?) che non tenteremo di intraprendere, anche perché stavolta non serve, così come non era servita due anni fa. Anche perché persino gli osservatori neutrali hanno subito capito che non c’è nulla di più innaturale della mancanza di attenzione, quindi anche di rispetto, nei confronti dei propri simboli e della propria appartenenza.
Maledetto tempo, verrebbe da dire. Ma il tempo di per sé non ha colpe, se sono gli uomini, pochi, che decidono come (male) e quando debba terminare una parabola popolare. Sportiva, nella fattispecie, ma quanto simbolica, quanto evocativa, quanto sacra, per l’appunto, in tutte le accezioni che vorrete attribuire al termine. Allora sì che diventa maledetto, quel tempo che altri stabiliscono per te.
Ci sarebbe una forma, l’unica praticabile, di “eternità” possibile e forse in futuro non più praticabile, nel calcio attuale: devolvere una carriera a una sola maglia.
A Francesco Totti quella eternità venne accorciata con un colpo di forbice, senza che lui lo volesse ancora. A Daniele De Rossi è andata peggio, alla fine: lui la maglia se la sfila di dosso, non soltanto simbolicamente. Ne vestirà un’altra? Forse sì, forse no, ma non importa che accada sul serio: la sola ipotesi non la meritavano, né lui né i tifosi della Roma.
Ecco perché chi parla di “festa” non sa nemmeno in che pianeta si trovi
Quel termine è lecito se si ha un’età che non va oltre i cinque anni, o se si è marziani appena sbarcati sul pianeta terra, perché anche quello di domani sarà un pienone di dolore, come in quell’altro giorno di maggio del 2017, il 28, in cui nessuna fanfara riuscì a stemperare l’acuto dei fischi per certe inquadrature sul maxischermo.
Perché in un giorno di festa non ci dovrebbe essere nessuno da fischiare. Così come, d’altro canto, non dovrebbe essere considerato saggio non presentarsi.
Questo, davvero, dovrebbe costituire un elemento di riflessione: nella storia di questa dirigenza romanista i momenti di maggiore afflato tra la Roma e il suo pubblico sono rappresentati da due pienoni di dolore, in entrambi i casi con il saluto doloroso e forzato verso chi ha incarnato la storia romanista e il malumore, conclamato, nei confronti di chi ancora non ha imparato a onorarla.
Paolo Marcacci