Trascorro una parte, considerevole, della mia vita in mezzo ai ragazzi di tredici o quattordici anni: il loro disagio a volte si percepisce nitidamente, a volte si riesce a individuare quando già ha attecchito da qualche tempo nel loro animo; in altre occasioni non siamo nemmeno così bravi a coglierlo, per nostra disattenzione e perché alcuni ragazzi sono capaci di far implodere dentro di loro disagi e tensioni.
Mi chiedo che effetto possa fare, in questa epoca così dannatamente “social” (definizione sempre più spesso antitetica alla vera socialità) la conoscenza di una storia come quella di Noa, che a diciassette anni ha voluto e potuto, con l’avallo di una legge che lo consente, trovare nella morte l’unico modo per “curare” le ferite che le avevano inferto nell’anima.
Non possiamo non chiederci, al di là delle questioni legali e culturali legate al singolo caso, che tipo di messaggio arrivi a milioni di adolescenti o preadolescenti, molti dei quali alle prese con disagi piccoli e grandi, che ovviamente non arrivano all’inferno vissuto da Noa ma che dentro di loro fanno attecchire insicurezza, mancanza di autostima, male di vivere nei casi più delicati.
È come se, da oggi, sapessero che la rinuncia alla vita è entrata ufficialmente a far parte delle soluzioni. Anche se non siamo olandesi, perché è un dettaglio.
Paolo Marcacci