…Quelli del più Europa? – Parte II

Segue da …Quelli del più Europa? – Parte I

Parte II

La seconda valutazione giunge da Alberto Bagnai, il quale sostiene che l’odierna richiesta del più Europa, nella duplice veste di una Bce prestatrice di ultima istanza insieme ad un’unione fiscale e politica per correre in soccorso dell’insostenibile Europa monetaria, ricalca schemi logici già visti proprio nel percorso verso l’Europa monetaria. Egli afferma che la teoria dell’Avo non parla di unione fiscale, bensì di coordinamento e integrazione fiscale, visti come strumenti potenzialmente utili per compensare le rigidità imposte dall’unione monetaria. Nell’analisi di Bagnai riecheggia una conclusione che ci riporta a quella premessa di Artus il quale afferma che nel panorama attuale le proposte del più Europa possono essere classificate in tre categorie: quelle inefficaci, quelle assurde e quelle irrealizzabili. 

Sono inefficaci per l’autore quelle proposte di cambiamento di statuto della Bce che dovrebbe diventare più simile alle Fed, in quanto ci sarebbe da capire perché tale funzione debba svolgersi a beneficio degli stati sovrani, dopo che questi si sono indebitati per salvare le banche private anziché rivolgersi direttamente a queste ultime. Se il ciclo è stato innescato dalla divergenza fra i tassi di interesse e di inflazione dei singoli paesi, nessuna politica monetaria potrà porvi rimedio. L’idea, infatti, che una moneta unica significhi inflazione unica è figlia di una concezione secondo la quale è la valuta a causare il livello dei prezzi. Sappiamo, però, che gli studi hanno confermato un ruolo cruciale del mercato del lavoro nel determinare la dinamica dei prezzi e in Europa tale mercato, segmentato a causa di fattori culturali e istituzionali, porta la Bce a poter fare ben poco al fine di comporre i differenziali di competitività che hanno messo in ginocchio la periferia.

Ma al di là del dato oggettivo, rimane il dato politico: anche se il rischio d’inflazione è remoto, in termini generali i creditori del centro non intendono accettare qualcosa che assomigli a una “socializzazione” delle perdite, realizzate tramite un meccanismo che consenta ai debitori di restituire somme decurtate dagli effetti dell’inflazione. Secondo Bagnai i tedeschi sono contrari all’inflazione perché sono creditori e come tali preferiscono essere pagati in moneta buona anziché svalutata. Sono assurde le proposte di unione politica che si riducono al rafforzamento del Patto di stabilità, implementato nel Fiscal Compact. Queste vorrebbero che il bilancio pubblico si muovesse in senso anticiclico, andando in deficit nei momenti di recessione e consolidandosi nei momenti di espansione: questa flessibilità è tanto più necessaria quando il sistema è reso rigido dall’imposizione di una moneta unica.

Oggi, invece, nei momenti di recessione gli stati sono costretti a imporre nuove tasse o a tagliare spese, sottraendo ulteriore domanda al sistema, in un ciclo il cui unico risultato è stato quello di indebolire le economie dei paesi meno forti. Le proposte di un più Europa nella veste di un’unione fiscale sono irrealizzabili nel continente. Certo, l’integrazione fiscale è uno dei motivi di tenuta dell’unione monetaria statunitense: dagli studi risulta, infatti, che negli Usa il bilancio federale compensa in media per più di un terzo, mediante riduzioni di imposte o aumenti di trasferimenti contribuendo così a bilanciare gli squilibri fra gli stati dell’Unione.

Bagnai afferma che purtroppo meccanismi di questo tipo mancano in Europa per un semplice motivo: sistemi del genere sono politicamente improponibili in un contesto costituito dai paesi del centro. Per la classe politica di questi paesi è impossibile richiedere all’elettorato atteggiamenti cooperativi con chi finora è stato additato come responsabile della crisi, ossia i paesi del Sud. Del resto, se ci fosse una volontà politica di cooperazione, questa potrebbe avvenire immediatamente, senza alcuna modifica istituzionale, basterebbe che la Germania allineasse le proprie politiche economiche con quelle degli altri paesi membri, un coordinamento, peraltro, esplicitamente richiesto proprio dal Trattato di Maastricht agli artt. 3 e 103. Una collaborazione che richiederebbe alla Germania un comportamento esattamente opposto a quello tenuto fino ad oggi: dovrebbe cioè orientare il proprio modello di crescita sullo sviluppo della domanda interna, dando così ossigeno alle economie dei suoi partner.

Per lo studioso italiano il dibattito verte ormai solo su come recuperare competitività nei confronti della Germania, avendo ormai perso il senso del termine unione e dando per scontato che lo scopo dell’eurozona sia quello di favorire una competizione fratricida, anziché il coordinamento e la cooperazione per il conseguimento degli obiettivi inseriti nei trattati. Nel dibattito corrente circolano spesso frasi come “l’euro rappresenta la pace sul continente europeo” oppure “l’euro è l’Europa”. L’unione monetaria è presentata come una tappa sulla strada della cooperazione tra gli stati europei, ma ciò a cui bisogna rispondere è se sia sostenibile nella sua forma attuale.

Come abbiamo visto, i paesi dell’eurozona sono lontani dal costituire una zona monetaria ottimale e per armonizzare quest’area ci vorrebbe una riformulazione strutturale delle politiche, non solo monetarie, della governance europea. Allora, di fronte alla possibilità di un conflitto si tende a presentare la cooperazione come un bene in sé, dimenticando che, in realtà, essi sono due facce della stessa medaglia. Infatti, il conflitto sta nella cooperazione, così come troviamo che forme residuali di cooperazione esistono nelle tipologie più violente del conflitto. Se la teoria dei giochi ha reso popolari le nozioni di gioco a somma zero o di vincente/vincente, occorre ricordare che essa dipinge un universo dove gli attori hanno preferenze statiche, mentre la realtà è assai più complessa e diversa. La cooperazione non si stabilisce solo quando gli attori o paesi scoprono di avere un interesse a cooperare, essa si costruisce anche quando gli stessi attori o paesi hanno i mezzi per punire un paese che piega il processo di cooperazione a suo solo vantaggio. In altri termini, la letteratura delle relazioni internazionali ci insegna che la permanente minaccia di un ricorso al conflitto è il vero collante della cooperazione.

Se, infatti, una situazione di conflitto è inferiore a una situazione di cooperazione, la prima situazione spesso è superiore a una forma di cooperazione piegata ai soli fini di uno o alcuni attori. Questa è esattamente la situazione nella quale si trova l’eurozona: la Germania ha piegato il sistema a proprio favore, come dimostrano le statistiche riguardanti il suo commercio con l’estero. Siamo, quindi, di fronte al vero problema che sta alla base del termine cooperazione. Questo non si traduce nell’idea di rifiutare un coordinamento in campo monetario che comunque può assumere forme diverse da quella della moneta unica.

Bisognerebbe imparare dal passato e trarre una lezione, ossia la cooperazione può funzionare solo se si costruiscono seriamente delle strategie che consentono, se necessario, ai paesi più deboli di “minacciare” i paesi più forti, in modo tale da convincerli della loro determinazione a non accettare proposte fin troppo contrarie ai loro interessi. Inversamente, rifiutare temporaneamente la cooperazione e scegliere il conflitto può consentire alla periferia di assumere un atteggiamento più credibile, sulla base del quale una nuova negoziazione può avere un esito positivo, si pensi ad esempio data dalla Francia nel 1965 con la “politica della sedia vuota” che ha portato al compromesso del Lussemburgo. La cooperazione, quindi, va ricercata, ma non è facendone un idolo, pretendendo di escludere dalla vita politica la realtà del conflitto che la si può raggiungere.

Roberta Novacco


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