Segue da… Italia senza euro: We can do it
Parte II
Il secondo problema che l’Italia dovrebbe fronteggiare in seguito ad una sua eventuale uscita riguarda la liquidazione del debito. Molti autori, rispettosi del dogma dell’indipendenza della Bce, concludono che tale eventualità porterebbe una diminuzione dei tassi di interesse sul debito.
Ciò varrebbe per tutti i paesi periferici, dove il costo elevato del debito è dovuto al fatto che essi non hanno una politica monetaria indipendente, il che aumenta il rischio di svalutazione e bancarotta.
Secondo l’analisi di Bagnai l’uscita dall’eurozona, in termini di finanza pubblica, sarebbe sostenibile nel breve e lungo periodo per due motivi, uno interno e l’altro internazionale.
Il primo è collegato al fatto che la posizione dell’Italia è migliore rispetto agli altri paesi in difficoltà in termini di risparmio delle famiglie e di avanzo primario del settore pubblico. Secondo tale ragionamento il governo italiano non incontrerebbe difficoltà a investire sul mercato finanziario nazionale, tenendo anche conto del fatto che al sovvenzionamento sarebbero chiamati a partecipare sia la banca nazionale, attraverso la monetizzazione del debito, sia le aziende di credito, tramite l’imposizione di un vincolo di portafoglio.
Mentre nel lungo periodo riveste un ruolo fondamentale il fattore internazionale. In uno studio condotto da Reinhart e Sbrancia l’attuale fase storica è costituita da una crisi debitoria di proporzioni epocali, comparabili alla crisi del 1929 e alla forte recessione post seconda guerra mondiale.
L’esperienza passata prova che per uscire da una situazione del genere i percorsi sono la bancarotta, l’iperinflazione o il ripristino di un sentiero di crescita moderatamente inflazionistico, assistito dalla regolamentazione dei mercati finanziari, mentre l’austerità non ha mai rappresentato una risoluzione.
Se, infatti, si va ad analizzare il comportamento adottato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito nel 2013, in cui si sono registrati tassi di interessi reali negativi, si è sentito parlare di ripristinare la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento. Il fatto che istituti come il Fondo Monetario Internazionale hanno ammesso la possibilità e l’efficacia, in alcuni casi, di controlli sui movimenti di capitale sono tutti elementi che rappresentano un cambio di atteggiamento da parte delle principali potenze finanziarie mondiali. Insomma, un atteggiamento favorevole a ripristinare un ambiente ordinato sui mercati finanziari, assicurando un percorso di crescita moderatamente inflazionistico.
Perciò, questo elemento, per quanto incerto, segnala che l’Italia potrebbe trovare consensi internazionali in consonanza di interessi con Paesi debitori, come gli Usa e il Regno Unito.
Purtroppo l’euro si è dimostrato un modello di integrazione fallimentare, producendo una divaricazione tra zone in surplus e zone in deficit.
Esso non è l’unico modo di integrazione possibile ed uscendone l’Italia, o qualsiasi altro paese Ue, dovrebbe farsi promotore, nelle sedi internazionali, di una politica di scambi esteri più equilibrati, un approccio che deve costituire la base per il rilancio di un percorso di integrazione europea migliore. Bagnai spiegando il nuovo approccio, l’External Compact, giunge alla conclusione che la gestione richiederebbe il ripristino di una flessibilità del cambio fra paesi membri, almeno fino a quando i mercati del lavoro si troveranno a essere diversi.
I tre principi cardine si rifanno a quelli indicati da Meade:
- i paesi partecipanti devono impegnarsi a effettuare politiche di stabilizzazione macroeconomica interna, volte nei paesi in surplus a evitare deflazioni e in quelli in deficit inflazioni;
- gli aggiustamenti di cambio devono avvenire in regimi di fluttuazione libera, rispettando un principio di simmetria: la valuta dei paesi in surplus può apprezzarsi mentre quella degli stati in deficit può deprezzarsi;
- deve essere creato un meccanismo che sia in grado di fornire valuta di riserva ai paesi in deficit, consentendo loro di gestire il processo di aggiustamento senza destabilizzazione economica e sociale.
Tutto questo deve avvenire in un contesto di politiche di coordinamento, già previste dal Tfue.
L’autore continua sostenendo anche che “se si vuole rispettare il principio di promozione del pieno impiego si deve necessariamente reintrodurre la flessibilità del cambio per assicurare uno svolgimento ordinato degli scambi esteri, in un contesto di stabilizzazione interna volta a garantire che sul mercato dei cambi non si scaricano indebite pressioni“.
Per fare ciò riprende, acquistando un nuovo senso, alcune proposte avanzate negli ultimi anni: adottare uno standard europeo di salario minimo garantito, differenziato da paese a paese ma definito secondo comuni regole europee; misurare la crescita salariale con quella della produttività, eventualmente legando a quest’ultima la crescita del salario reale minimo; programmare la spesa pubblica così che il deficit pubblico, dato l’ammontare della tassazione, compensi il surplus privato, assicurando l’equilibrio del saldo delle partite correnti.
Tale progetto, all’interno del nuovo approccio assolverebbero il compito di garantire la stabilizzazione macroeconomica, permettendo così alla flessibilità del cambio di operare in modo efficiente, senza provocare traumi sui mercati. L’adeguamento dei tassi di cambio intraeuropei diventerebbe sempre meno necessario a mano a mano che i mercati del lavoro dei vari stati membri si integrano e si adattano a regole comuni.
In questo contesto, perciò, non sarebbe possibile per un paese praticare deflazioni competitive, perché gli altri potrebbero reagire con una svalutazione difensiva del cambio, senza sacrificare i propri obiettivi di occupazione e sviluppo. Difatti, quando chi è ‘aggredito’ possiede un’arma per difendersi, le soluzioni cooperative emergono più facilmente.
Roberta Novacco
LEGGI ANCHE:
- …Quelli del più Europa? – Parte I
- …Quelli del più Europa? – Parte II
- Le conseguenze di un Euroexit
- Le proposte (mai sentite) di uscita dall’Euro