Cinquantacinque anni, quelli che Piero non sarebbe mai arrivato ad avere. Tanti sono quelli trascorsi da quando un giovane studente della Genova bene, ma anarchico rispetto a tutti i cliché in mezzo ai quali era nato, riuscì a innestare sulle note di una ballata popolare una serie di endecasillabi, alternando le rime, o facendole baciare, cosa che Piero non sarebbe più riuscito a fare con la sua Ninetta.
Si chiamava Fabrizio De André, lo studente, aveva una frangia castana sopra l’occhio con la palpebra già un poco abbassata. Scriveva e componeva per diletto, mai si sarebbe sognato di esibirsi in pubblico; di fatto per molto tempo non lo fece.
Piero è invece, ancora oggi, il suo soldato immaginario, scomodo in ogni divisa del mondo, presàgo di un destino che tenta di prendere a calci, mentre i suoi scarponi affondano nella stessa neve che il vento gli sputa in faccia.
1964, mondo in subbuglio, le prime generazioni che non hanno visto la guerra ma ne temono, per paradosso, una già globale, annientante, annichilente. Anni di minacce nucleari incrociate, anche se Piero col suo fucile e il suo “passo di java” (una specie di melodia popolare dei primi decenni del Novecento) fa pensare molto di più a un fante della Prima Guerra mondiale, così come lo stesso identico umore del soldato nemico ha sempre richiamato alla memoria certi momenti di tregua da una trincea all’altra, per esempio in certe notti di Natale quando si sospendevano le ostilità, o in alcuni Ferragosto in cui tra linee nemiche vennero disputate partite di calcio.
Sta di fatto che Piero non avrà mai gli anni della canzone perché non è mai invecchiato, non ne ha avuto il tempo: dev’essere per questo che ancora oggi gli studenti di quattordici anni scaricano la canzone tramite i loro smartphone, ne leggono i versi sulle antologie. Per un qualche miracolo, di quelli che compie la poesia anche quando si imbarazza nel definirsi tale, è rimasto sempre vivido il rosso di quei papaveri, quello che alla fine sembra sopravvivere al medesimo colore del sangue che Piero non avrebbe voluto versare, meno che mai in un giorno di maggio.
Paolo Marcacci
Leggi anche:
- Primo Levi, un nome che non cicatrizza
- San Lorenzo ’43, cadevano le bombe come neve
- Il maestro di tutti