Un calciatore disputa una partita, fornendo una prestazione diciamo discutibile, macchiata da un errore che si rivela decisivo per il risultato finale. Fin qui tutto “normale”, anche se spiacevole per la squadra e per la tifoseria coinvolte.
Poi, subentra la dimensione virtuale, cosiddetta “social”. A proposito, riflettiamo mai su quanto alcune definizioni e alcune parole possano essere antitetiche rispetto alla realtà che pretendono di descrivere? “Social”: fa pensare a uno scambio, a un luogo d’incontro, seppur telematico, a un qualcosa che abbatte le distanze, che crea ponti. Tutto bello, a parole.
Poi, si sovrappongono però altre parole, se un difensore come Juan Jesus, dopo una prestazione come quella contro il Genoa, fa professione di umiltà, si cosparge idealmente il capo di cenere e scrive a tutti i suoi utenti che la sua risposta alla prestazione sarà soltanto il lavoro quotidiano sul campo e l’ottanta per cento delle risposte degli utenti sono improntate al sarcasmo, allo sfottò pesante, quando non al vero e proprio insulto. Non c’e nulla di più “antisocial” se permettete: laddove si pretende apertura potenzialmente illimitata, va invece in scena la chiusura, quella mentale e quella reale, perché ora il giocatore ha deciso, con immaginabile amarezza, di chiudere i suoi profili, salvo la pagina dei fans su Facebook.
Bisognerebbe sempre ricordarsi che tutti quei mezzi che riconduciamo alla dimensione virtuale, producono poi reazioni emotive e stati d’animo tremendamente reali, in ogni individuo. Vale per milioni di adolescenti, di persone sole o fragili, di svariate tipologie di individui, anche se il pretesto per ricordarlo ce lo fornisce stavolta la bacheca di un calciatore ricco e famoso.
Paolo Marcacci
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