Chissà se quando ci fermiamo a pensare alle persone che, in un modo o nell’altro, ci hanno fatto del bene, ci ricordiamo di includere in questa categoria quelli che ci hanno fatto sorridere. Forse non ci viene in mente; forse ci viene spontaneo pensare a questioni più “serie”. Magari è naturale, certamente è ingiusto.
Appena ho saputo della scomparsa di Stefano, i primi istanti ho tentato di assorbire il colpo allo stomaco, il respiro mozzato dallo sgomento. Subito dopo, ho pensato a qualcosa che dovrebbe essere totalmente antitetico alla morte e che, ora che ci penso bene, in qualche modo la sconfigge: ho pensato a quanto abbiamo riso. Ho pensato al cazzeggio, termine che in una riflessione del genere non dovrebbe neanche venirmi in mente di scrivere. Ma invece sì, ho pensato al cazzeggio con Stefano, a tutti i siparietti che era naturale si creassero con lui nel commentare le varie vicende calcistiche, le beghe del mondo della comunicazione locale, i vizi e i vezzi di questo o quel personaggio. E mi sono reso conto che spesso ero io ad andarlo a cercare, Stefano, perché avremmo riso di qualcosa, di qualche situazione, anche di qualcuno dai. Mai con cattiveria, sempre con il gusto di sdrammatizzare; perché sin da quando ho iniziato a frequentare questo ambiente della radiofonia sportiva capitolina e ho conosciuto Stefano Scipioni, ormai una ventina di anni fa, una cosa di lui l’ho subito condivisa: la voglia di sdrammatizzare, la capacità di non perdere mai una visione disincantata delle cose. Al tempo stesso, lui ha sempre svolto con puntualità ed efficacia il proprio lavoro: in ogni conferenza; prima, dopo e durante ogni partita. Fino alla fine.Il fatto è che in un ambiente spesso serioso, Stefano ha sempre lavorato in modo serio, aggettivo che ha un significato ben diverso dal precedente. Al tempo stesso, non si è mai negato il gusto di prendere un po’ in giro tutti quelli che non sanno fare altro che troppo sul serio prendono loro stessi e ciò che fanno.
Poi ho pensato una cosa ancora, una cosa che non ho fatto in tempo a dirgli e che pensavo di confidargli, con ammirazione sincera, una volta tornato lui in tribuna stampa, ma qui se permettete intendo dargli del tu:
Mi sei sembrato un gigante, ogni volta che ti ho visto con il microfono in mano, con l’aria chiaramente sofferente, con la voce fioca, ma col microfono di Radio Radio in mano, ripeto: pronto a fare il tuo lavoro, abituato e svelto come un gatto tra i seggiolini degli opinionisti. Come se nulla fosse, con la stessa efficacia nell’arricchire le dirette. Ora lo capisco un po’ meglio e penso, oggi più di ieri, che in pochi saremmo capaci di reagire al male che ti aveva colpito così come hai saputo fare tu: è stato il tuo modo di prendere per il culo la malattia. Alla fine hai vinto, perché se è vero che ti ha tolto la vita, non è stata mai capace di toglierti la maniera in cui hai saputo interpretarla e ancora meno ha potuto privarti del tempo dedicato a fare quello che più hai amato e che ti ha divertito.
Ciao Ste’, se esiste davvero un Padreterno vacci col microfono, chiedigli qualcosa; poi mandalo in onda e continua a girare per la tribuna, come mi piace immaginarti anche domani, durante il derby. E prima o poi, come sempre alla fine del lavoro, torneremo a ridere di qualsiasi cosa.
Paolo Marcacci