Milan – Juventus, andata della semifinale di Coppa Italia, è stata una partita piena di eventi: episodi, decisioni più o meno discutibili, giocate apprezzabili, errori. Fino all’uno a uno finale. Va in archivio con una considerazione in più, giudicate voi se e quanto marginale: le inquadrature sui bambini. Sulla loro gioia, sulle loro esultanze, sui momenti di “disperazione”, sulle espressioni di speranza o di momentaneo sdegno per le decisioni arbitrali.
Apparentemente, una nota di colore. Apparentemente. In realtà, almeno a giudizio di chi scrive, una invasione indebita della loro intimità. Qualcuno potrebbe obiettare: intimità in uno stadio? Sì, anche. Perché un bambino che piange, come uno che esulta, in quel momento è comunque solo con se stesso, con la propria passione, ancora pura, per questo sacra. Perché sacro è il mondo dei bambini, anche quando sono tifosi. L’occhio della telecamera si fissa su quel mondo ancora incontaminato, che è tale finanche quando pronunciano una parolaccia appresa dagli adulti, offrendolo in pasto al disincanto di questi ultimi.
È comunque una violazione, una mancanza di tutela nei loro confronti. Si fanno mille discorsi sulla tutela della privacy dei minori, con esempi tratti da vari ambiti della cosiddetta società civile. Allo stadio no, anche in questo caso gli spalti diventano zona franca: si oscurano i volti per le foto sui vari social, nei servizi dei più disparati rotocalchi televisivi; poi arriva la partita e il bambino diventa soltanto uno dei tanti elementi, a volte il più caratteristico, di un carrozzone in cui tutto è buono per cercare l’inquadratura a effetto, anche quando l’effetto scaturisce dalle lacrime di un piccolo tifoso per cui tutto è ancora sacro, perché ancora puro: la sconfitta come la vittoria, la parata del proprio idolo, il dolore per il rigore subito negli ultimi minuti.
E nessuno chiederà scusa, ancora una volta.
Paolo Marcacci
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