Dovremo ricostruire una classe dirigente che abbia le competenze e non soltanto i titoli.
I titoli li ha chi ha studiato, chi ha una cattedra o un altro incarico. Il titolo offre la prova che un determinato soggetto abbia effettuato con successo un percorso formativo, ma poi non è detto che colui che ha i titoli sappia risolvere i problemi. La conoscenza teorica di un argomento non significa automaticamente che il soggetto sia poi in grado di metterla in pratica in maniera efficace.
Puoi aver superato brillantemente l’esame teorico di guida di una macchina ma poi all’atto pratico potresti non saper uscire da un parcheggio. Viceversa chi non ha sostenuto l’esame teorico di guida per essersi esercitato dal punto di vista pratico approvvigionandosi autonomamente delle cognizioni teoriche ed aver maggior successo nel conseguimento dell’obbiettivo.
Quanto sopra per dire che il titolo ancorché necessario di per se non è sufficiente a garantire una corretta e proficua prestazione.
Le competenze viceversa sono proprie di coloro che ai titoli aggiungono una solida esperienza pratica maturata nel settore negli anni ed un elenco di risultati ottenuti nella pratica risoluzione delle criticità che potrebbero presentarsi nello svolgimento dell’incarico che si intendesse affidare.
La logica clientelare largamente applicata nel settore pubblico del nostro paese ha accettato nel tempo che per poter accedere ad un concorso occorra avere dei titoli, ma quasi mai una esperienza pratica certificata di affidabilità nella risoluzione delle potenziali problematiche.
Il raccomandato, anche magari con qualche aiutino, ai titoli ci arriva (quello che un tempo veniva chiamato “pezzo di carta “). Più difficilmente trovi il raccomandato titolato e competente, perché altrimenti non avrebbe bisogno di essere raccomandato.
Anche se questo concetto in Italia non vale in assoluto, in quanto talvolta occorre raccomandare una persona competente per proteggerlo dalla pressante valanga di raccomandati incompetenti.
Le competenze sono la sostanza perché le ha chi ha già dimostrato di saper risolvere i problemi, può essere un ingegnere nucleare del CNR piuttosto che un artigiano.
Enrico Fermi era titolato e competente. Era titolato perché docente universitario era competente perché aveva saputo ordinare le proprie conoscenze nel verso della scoperta scientifica. E la competenza si rinviene quando le azioni portano materialmente a raggiungere gli obbiettivi o comunque qualcosa di tangibilmente utile e coerente all’organismo per cui ci si impegna.
Antonio Meucci non era titolato, in quanto aveva acquisito le sue conoscenze attraverso un percorso autonomo di apprendimento e non seriale o formalmente riconosciuto (ad es. diploma di laurea), ma era competente perché era riuscito a raggiungere gli obiettivi prefissati dalla sua esplorazione ed a consegnarci il telefono, quello strumento che, nelle sue evoluzioni, ancor oggi continua a cambiare la storia e le abitudini del mondo.
Per anni abbiamo confuso inutili titolati con le competenze.
Tanto più che i curriculum si basano essenzialmente sulla conoscenza delle lingue ed il percorso accademico.
Un problema lo puoi declinare in tutte le lingue del mondo se non hai capacità ed esperienza non lo risolvi. Puoi esserti laureato in medicina con il massimo dei voti ma se non sei mai stato in corsia e se non hai mai preso un bisturi in mano, devi iniziare comunque per gradi, altrimenti a Roma si dice “i danni si sprecano”.
Sono trent’anni ormai che non ci affidiamo alla competenza, ma soltanto ai titoli e dinanzi all’insuccesso dei titolati abbiamo coniato il detto “uno vale uno”.
Come se Michelangelo Buonarroti valesse il mio amatissimo panettiere (a cui voglio un bene dell’anima, ma non gli avrei mai commissionato di dipingere la volta della Cappella Sistina).
Ma giustamente se un titolato spesso raccomandato, altrettanto spesso disponibile soltanto a far altro, non raggiunge i suoi obiettivi e si rivela inadeguato, di fatto, si rende inutile quando non dannoso.
In buona sostanza in termini di apporto quel soggetto, ancorché titolato conferisce il “nulla”.
Ed allora, in pieno delirio collettivo, qualcuno ha anche pensato meglio il “nulla onesto” che il “nulla raccomandato”.
Così nasce l’era del “nulla al potere” che ha farcito la politica di esponenti “titolati del nulla” e di “soggetti presunti onesti” provenienti dal nulla, avendo buona cura di lasciare fuori le competenze.
Abbiamo premiato i giovani soltanto perché giovani e non perché bravi, rottamando i vecchi soltanto perché vecchi e non perché inesperti o incapaci.
Abbiamo premiato le donne in nome della normativa sulle quote rosa che le impone per sesso e non per merito.
In virtù del “politicamente corretto”, ossia del “praticamente inutile”, abbiamo dispensato riforme puramente estetiche e demagogiche. Abbiamo pensionato l’esperienza.
Ed oggi nell’era del “nulla al potere”, pure realizzare una banale mascherina da offrire al personale sanitario in prima linea contro la pestilenza, a due mesi dall’insorgenza dell’epidemia, costituisce un insormontabile problema.
Enrico Michetti
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