Luis Sepúlveda, l’elogio degli ultimi

Più dei titoli delle sue opere, tante e tutte di successo, per lui parla la vita, l’esistenza condotta fino alla fine, quando si è arresa al ‘nemico invisibile’.

“Sono uno scrittore perché non so fare altro che raccontare storie. Ma sono anche un essere sociale, un individuo che rispetta sé stesso e intende occupare un piccolo posto nel labirinto della storia. Da questo punto di vista, sono il cronista di tutti coloro che giorno dopo giorno vengono ignorati, privati della storia ufficiale, che è sempre quella dei vincitori”.

E questa ispirazione lo portò a essere esule dal Cile, la sua terra brutalizzata dalla dittatura di Pinochet (dopo una lunga detenzione), convinto ecologista senza cercare ribalte mediatiche, studioso della vita di popoli e tribù in via di estinzione e delle quali conobbe usi e costumi convivendo con loro nella giungla.

Sempre portando in volto tutta un’America Latina diseredata, depredata, volutamente ignorata e misconosciuta; tra uno sbuffo di fumo e l’altro, a velare i tratti da indio.

Un comune denominatore, un filo rosso è sempre riconoscibile a legare ogni sua opera con tutte le altre, compresa la celeberrima ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’: la lotta tra il bene e il male, il contrasto tra le ragione di chi soffre e i privilegi di chi la sofferenza infligge; nell’ingiustizia che determina il corso dei singoli destini così come quello della storia.

Se dovessimo permetterci di dare un consiglio, ai nostri ascoltatori diremmo di iniziare da ‘Diario di un killer sentimentale’, dove già il titolo suggerisce contrasti tra il senso comune e quello realmente percepito delle cose.

Avrebbe voluto fare il calciatore e pare fosse anche bravo, da ragazzino; poi a tredici anni incontrò la ragazza più bella del mondo, a suo dire: si chiamava o forse si chiama ancora Gloria, amava la poesia e pur di compiacerla lui cambiò strada o, forse, è lecito dire che la trovò.

Meno platonico fu l’interesse per la Professoressa Camacho, avvenente insegnante di storia ai tempi del liceo, gambe stupende avvolte, si fa per dire, da una pionieristica minigonna. Erano i primi anni sessanta e a lei dedicò il primo racconto.

“È pornografia…” disse il preside, sulla cui scrivania finì il manoscritto.
“È letteratura erotica” lo corresse lui.
“No, pornografia. Ma scritta molto bene”.

Paolo Marcacci


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