– Sai quanti uomini neri sono uccisi ogni anno da pistole e coltelli, senza un centesimo per i loro nomi? – Muhammad Ali
Quando la percezione di un pregiudizio appare così lampante, spesso noi opponiamo un altro pregiudizio, per reagire, per dare sfogo alla nostra indignazione. In effetti, la prima cosa che ci è venuto naturale, anzi istintivo pensare, è stata: – A un bianco non l’avrebbe fatto -. Quel poliziotto non l’avrebbe soffocato così, con quella gestualità tronfia e barbara al tempo stesso, se George Floyd non fosse stato afroamericano. Come facciamo a esserne certi? Non lo siamo, proprio per questo abbiamo premesso che anche il nostro è un pregiudizio. Perché, in effetti, siamo convinti di avere ragione soltanto al novantanove per cento. Con tanti nove periodici dopo la virgola. Con quella quota di garantismo che dobbiamo sempre omaggiare, anche in un caso come questo. È tutto qua, giudicate voi se sia molto o poco. L’importante è non chiamare in causa il punto di vista o considerare opinabile ciò che non lo è, davanti a un’immagine del genere. È questione di rispetto per la soglia minima di dignità che spetta a ogni individuo. Indipendentemente dal colore della sua pelle.
Però, guarda caso, è toccato a un nero. E, secondo indizio, il poliziotto è bianco. C’è anche il terzo, a voler essere pignoli: la gente che assisteva alla scena aveva più volte fatto presente che Floyd – disarmato al momento dell’arresto – non riusciva a respirare.
Quando il giocatore della NFL Colin Kaepernick iniziò a inginocchiarsi durante l’inno americano suonato prima di ogni partita di football, quello stesso inno che i giocatori ascoltano in piedi, molti se la presero con lui. Lo definirono anti americano, irrispettoso. Ma la sua era una protesta pacifica contro la discriminazione razziale e la brutalità, selettiva, della polizia. Alle domande dei cronisti, Kaepernick rispondeva che non voleva onorare un Paese in cui i neri sono ancora cittadini di serie b.
Il suo gesto fu emulato da altri grandi professionisti dello sport. Dopo aver rescisso il suo contratto con i San Francisco 49ers a marzo 2017, Kaepernick rimase senza squadra.
Cos’ha in comune la vicenda di una star come lui con quella di un uomo come Floyd, che stava tentando di ricostruire la propria vita? È il colore della pelle: quello che ricorda a Kaepernick che non può pretendere di pensare in modo difforme dall’establishment dominato dai bianchi che lo ha reso ricco e celebre e che rammenta a tanti George Floyd di non poter reagire nemmeno a male parole di fronte a un sopruso.
Per questo va reso onore a LeBron James, a Jayled Brown, a Jerome Boateng e a tanti altri neri di successo per aver preso posizione, per essersi sentiti parte in causa, anzi parte “della” causa. Senza affondare la testa nel mangime del privilegio.
Ricordando sempre che, anche oggi che siamo nel 2020, un razzista qualunque potrà sempre inventarsi un pretesto utile per ricordare a un qualunque nero il colore della sua pelle. Lo aveva saputo dire meglio di altri Larry Holmes, una volta divenuto Campione del mondo dei Pesi Massimi: – È dura essere negro. Ti è mai capitato di esserlo? A me sì, una volta, quando ero povero. –
Paolo Marcacci