Un tifoso vive sempre due esistenze, parallele, che non si sfiorano mai; con due tipi di memoria a custodire diversamente lo scrigno dei ricordi: nella vita cosiddetta normale ti può capitare di dimenticare la data delle tue nozze, il giorno di San Valentino e finanche quello del tuo stesso compleanno. Ma sei il medesimo individuo che continuerà a ricordare, finché avrà aria nei polmoni, i gol che hanno scandito le tue stagioni: non soltanto la data, anche il minuto, lo sviluppo dell’azione, l’autore del passaggio e se quel giorno c’era il sole o pioveva.
Ecco perché un centravanti non muore mai: lui non lo ha mai saputo, ma ogni volta che ha iscritto il suo nome in quella forma d’eternità che sono gli almanacchi, ha scandito la tua esistenza con la punteggiatura delle sue reti.
Se poi il centravanti è anche bello, allora ti accorgi che non è nemmeno invecchiato: è rimasto quello che quel giorno sì è presentato all’appuntamento col cross, per ricordarti in eterno chi eri, quello che facevi, di chi eri innamorato o chi ti aveva fatto soffrire; persino il voto che il lunedì seguente avevi rimediato a scuola.
Capelli lunghi e pantaloni a zampa d’elefante, quando Pierino Prati si era presentato la prima volta al cospetto di Nereo Rocco, il Paròn era stato tentato di rispedirlo a casa. Invece lo responsabilizzò, chiedendogli di meritarsi il Milan. Insieme avrebbero vinto tutto, fino alla Coppa Intercontinentale, con l’apice toccato una sera di maggio del 1969: in lacrime il giovane Johan Cruijff, fiore in boccio di un calcio ancora di là da venire; ridicolizzato l’Ajax che alla vigilia era favorito; un gol di Sormani, la tripletta di Prati. Solo Puskas era stato capace di fare meglio di lui in una finale della vecchia Coppa dei Campioni.
E quando venne a Roma, per dimostrare a se stesso prima che agli altri di essere ancora lui, sembrò subito che ci fosse nato e vissuto, nella capitale, Pierino Prati da Cinisello Balsamo, il milanese col sorriso. Ogni volta che parte il cross di Peccenini, con quella traiettoria così arcuata e l’uscita bassa di Felice Pulici che arriva a sfiorare soltanto il sibilo della palla, tutti quelli che c’erano si ritrovano lì, sotto l’ombrello di quella domenica così piovosa del 23 marzo del 1975, con gli anni che avevano allora, sempre in attesa di Prati che sta per scuotere la rete zuppa, sotto la fungaia degli ombrelli della Curva Sud: madre, moglie, amante dalla quale correre, per ogni tipo di bacio che resterà indelebile, in bocca o sulla fronte.
Minuto 76, senza né un prima, né un dopo: perché il centravanti vive solo nell’istante presente, quando il suo nome ferma ogni lancetta. Come starà facendo anche adesso Pierino Prati, chiedendo a Dio, o chi per lui, di andare a battere il calcio d’angolo.
Paolo Marcacci