A ventisette anni dalla caduta della Prima Repubblica abbiamo scoperto che chi ne sancì la fine aveva lo stesso modus operandi e la stessa organizzazione per correnti.
La politica clientelare e correntizia del secondo dopoguerra, con i suoi grandi partiti storici, in cui vi erano comunque oggettivamente personaggi di ben altra levatura rispetto agli attuali, per quasi cinquant’anni non si era lasciata imbrigliare dalla magistratura, con cui aveva stabilito una sorta di patto di non belligeranza.
L’equilibrio tra i poteri, fulcro della democrazia, consisteva in un accordo di non ingerenza.
Persino durante il periodo del terrorismo e dello stragismo il governo (potere esecutivo) evitò qualsivoglia ricorso ad atti attuativi amministrativi nel varare norme sull’emergenza rispettando il Parlamento (potere legislativo), che comunque, onorò il suo ruolo riunendosi in seduta permanente.
Tutti gli atti limitativi della libertà vennero assunti con provvedimenti aventi forza di legge, per cui approvati dall’Assemblea parlamentare.
Allora non c’era il virus ad impaurire il politico ma le pallottole. Anche allora si disse “prima la salute“. Ma la salute della Repubblica. E non quella dei “conigli” di oggi, ad ogni livello, in politica come nel calcio. Come se, con il nemico in casa, i nostri patrioti si fossero arresi alla prima revolverata.
Studiamo le guerre di indipendenza. Portiamo ad esempio tutti quelli che hanno sacrificato la loro vita per la patria.
E poi, giustifichiamo ogni sorta di fuga dal pericolo, da parte di chi ha ruoli di alta responsabilità politica, sociale, economica…
Il coraggio sfrenato dei salottieri
Nel calcio si son dovuti ricredere e porre in atto l’ennesimo ribaltone.
Ora sarà solo il contagiato ad andare in quarantena. Ma l’uomo del Monte ancora oggi vieta ai bambini di giocare a pallone.
Poverette le nostre creature, chissà cosa avranno fatto di male per meritare tale supplizio dopo tre mesi di assoluta clausura.
Probabilmente il coronavirus aggredisce soltanto bimbi ed amatori, mentre i professionisti ne sono immuni per legge.
Ma torniamo alla magistratura che in verità ogni tanto tentava degli sconfinamenti, non sempre a torto, ma trovava il muro granitico dell’immunità parlamentare, che a prescindere dai colori non veniva mai negata a nessuno.
L’immunità rappresentava una linea di confine invalicabile tra i diversi poteri dello stato. Non era certamente soggetta ai vergognosi opportunismi odierni.
Ma soprattutto nella sua formulazione originaria costituiva una robusta ancora di salvezza contro le distorsioni di una magistratura talvolta ideologizzata o parziale (probabilmente una piccola parte, ma spesso decisiva).
È vero che alcuni criminali si nascosero dietro questa garanzia costituzionale. Ma toglierla ha indebolito irrimediabilmente l’organo legislativo consegnandolo nelle mani del potere giudiziario.
Come dire che visto che ci sono degli stupri, allora che si proceda alla castrazione di ogni essere umano di sesso maschile.
La riforma abrogò di fatto l’immunità parlamentare e gli sconfinamenti da quel momento da sporadici divennero frequenti.
Tali incursioni oltre a provocare morti e feriti, hanno reso l’Assemblea ostaggio dell’organo di giustizia.
Da allora iniziarono ad allontanarsi dalla politica le forze migliori della società, quelle che avrebbero avuto tutto da perdere nel perseverare in riforme tanto necessarie quanto confligenti con gli interessi di fazione e molto spesso con ideologie imperanti anche nelle correnti magistratuali.
In politica quindi, irruppero, a liberare il campo, “graditissimi soggetti innocui irrilevanti, direi inutili”: starlette, soubrette, tirapiedi, faccendieri ed oggi persino figure improvvisate in cerca di prima occupazione.
Tutti promossi generali senza neanche esser mai passati in caserma
Ma la tragedia della classe dirigente politica impallidisce dinanzi a quello che il vero ed unico potere di stato cerca di sopire, di nascondere, di limitare.
Di far passare come un’inezia.
Dire al Corriere della Sera che «non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti» e che «non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni». Oppure sostenere che sia un errore aspettare le sentenze dei processi mi sembrava già il massimo per decretare la sovranità assoluta di un potere sugli altri.
Prova ne era che Governo e Parlamento rispondevano prontamente al comando del sommo potere, formulando leggi incostituzionali come la Severino, l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio e non prendendo mai in considerazione la sacrosanta richiesta di separazione delle carriere nella magistratura.
Un giorno giudice a l’altro pubblico ministero.
Un giorno giudichi e l’altro accusi
Ma il giudice, in ragione della terzietà, non doveva porsi in posizione equidistante tra accusa e difesa?
Debbo riconoscere però, che, nonostante ne avessi viste tante, alla disinvoltura con cui si invita ad annientare un avversario politico utilizzando i poteri repressivi tipici dell’organo di giustizia, non ero proprio abituato.
Per un cittadino innocente un processo è già una condanna.
Per un politico perbene e scomodo è ancor peggio perché una condanna ingiusta inflitta in primo grado, grazie alla Severino, lo stralcerebbe dalla vita politica.
Ecco perché qualora l’organo terzo, imparziale, indipendente ed autonomo proiettasse l’azione penale a tutela di interessi di fazione, rappresenterebbe la morte della credibilità della magistratura e con essa purtroppo, anche della giustizia.
Il silenzio dinanzi a tali vicende non aiuta, come del resto non aiuta, trovare un capro espiatorio per coprire un sistema.
Un sistema che nessuno ha sconfessato, come accadde anche in una seduta della Camera dei deputati, gremitissima, in cui Bettino Craxi denunciava un’altro sistema, anch’egli in maniera tardiva, e del pari nessuno si mosse, nessuno lo contraddisse.
Allora si scatenò il putiferio, oggi, al di là di qualche tiepido rimbrotto, il silenzio regna sovrano.
Questo la dice lunga su chi detiene veramente il potere nel nostro paese.
E non è una buona notizia per la democrazia.
Le condanne servono a poco quando un sistema è accettato, praticato e legittimato dalla prassi.
Le condanne non servirono allora (alla politica) e non servono oggi, sono utili soltanto a chi vuol sostituirsi e continuare.
Serve una vera riforma, che non fu fatta allora per la politica e che probabilmente non si farà neanche oggi per la magistratura.
Enrico Michetti