Se un giorno chiedessero a noi, nati negli anni settanta, di dimostrare a quelli che sono venuti dopo perché abbiamo avuto un’adolescenza felice e di farlo attraverso un pugno di immagini, una di quelle sarebbe un’istantanea di Maradona. Palla al piede, con un ombrello di riccioli scuri quasi a sfiorare il numero dieci sulle spalle. E scegliete voi se con la casacca del Boca, se con quella della Selecciòn Argentina o se con quella del Napoli. L’approdo definitivo della carriera e dell’anima, non soltanto nella percezione di noi italiani e non solo per i tifosi partenopei: siamo convinti di questo tanto quanto siamo commossi, in questo momento. E ancora di più restiamo increduli, concedetecelo.
Di pochi, pochissimi si può dire che abbiano incarnato una linea di confine, ossia che ci sia stato un prima e un dopo di loro.
Maradona è persino oltre questo discorso: è – non riusciamo a non continuare a usare il presente, vedete – persino oltre questo discorso: è un eterno ritorno di istantanee calcistiche; un paragone troppo alto (e altro) per ogni giocata di qualcuno che ci troviamo ad applaudire con un “però” di fondo. “Alla Maradona” continua a essere troppo, per chiunque altro e la pugnalata di questi momenti nega i termini a ogni paragone che abbiamo cercato quando lui ha smesso.
Perché se, come ha detto un maestro, ogni volta che un bambino calcia un pallone ricomincia la storia del calcio, allo stesso modo la felicità del gioco la immaginiamo – da oggi più di prima – fattasi carne coi suoi lineamenti, con le fibre dei suoi muscoli, con quella specie di mano cucita sotto la caviglia, nel lato mancino.
E mentre l’uomo è invecchiato, come alla fine ha voluto, bene o male non sta a noi giudicare, il calciatore ci terrà compagnia per sempre, il mago continuerà a stupirci anche all’ennesima riproposizione del gioco di prestigio, il poeta ci commuoverà sempre ogni volta che lo vedremo mettere a terra un pallone.
E una cosa, di lui, si potrà dire che abbia saputo fare, forse meglio di ogni altro idolo: ha saputo sempre rappresentare la vita dei ricchi e quella dei poveri allo stesso tempo, forse perché avrà sempre ragione per sempre un grande napoletano come Domenico Rea, per quando disse che i poveri non diventano mai ricchi: al massimo, poveri coi soldi.
E al dio degli inglesi non credere mai…: ci viene in mente questo verso di De André, se ripensiamo a quando lui a un altro Dio chiese in prestito una mano scugnizza, ci viene da definirla così; per poi ricamare un arazzo di dribbling per far capire ai sudditi di Elisabetta che c’era una sola Maestà, in Messico.
Per ogni volta che lo abbiamo visto giocare, forse da avversari ancora di più che da tifosi napoletani, è bene precisare che non abbiamo assistito a uno spettacolo: abbiamo ricevuto un dono. È una cosa diversa; gli altri grandi giocatori continueremo semplicemente a goderceli. Sempre con quel “però”, se dovesse venirci in mente un confronto, subito percepito come sacrilego.
E provate a spiegare che in fondo stavamo parlando solo di calcio, quando nei vicoli dei Quartieri Spagnoli ognuno si sentiva un re, come a Versailles. Spiegatelo pure a Dio, ora che gli toccherà zoppicare, senza il piede sinistro.
Paolo Marcacci