L’occasione è solenne quando con le parole non si può giocare, quando il senso non può essere strumentalizzato, o interpretato a seconda di interessi di parte che pretendono di “aggiornare” la portata simbolica di una ricorrenza storica.
Si chiama Liberazione, con la più maiuscola delle maiuscole, perché il 25 aprile del 1945 l’Italia si era liberata del tutto dal giogo fascista, rappresentato prima dal regime e poi riesumato nel centro nord del paese dai repubblichini di Salò per conto della Germania nazista. Si chiama Liberazione perché ci si libera da qualcosa che opprime, che lede la libertà e i diritti di qualcun altro. Di un popolo intero, in questo caso.
Ogni anno bisogna stare a ribadire il concetto più ovvio, perché la sentenza l’ha emessa il più autorevole dei tribunali, ossia quello della Storia: i giusti stavano da una parte sola, anche se fu versato pure il sangue nemico.
Non è nemmeno così difficile da spiegare: da una parte la Resistenza che, assieme alle forze angloamericane, si batteva per restituire al paese la democrazia e la libertà (indipendentemente dall’uso che ne sarebbe stato fatto in futuro, aggiungiamo); dall’altra chi fino all’ultimo pretendeva di tenere in vita una dittatura che nel corso degli anni aveva acquisito la forma del totalitarismo e che, soprattutto, dopo aver stretto e ratificato un’alleanza con il più disumano dei regimi novecenteschi, aveva promulgato sul proprio territorio le Leggi razziali, in base alle quali da un giorno all’altro molti italiani non si sentirono più in diritto di considerarsi tali. Perché un bambino ebreo non poteva nemmeno fare il bagno al mare, oltre a non poter più frequentare la scuola assieme ai suoi coetanei, tanto per fare un esempio.
Quindi, quando qualcuno, o più di qualcuno ultimamente, pretende di dire che bisognerebbe considerarla la festa di tutti, lo può dire soltanto se intende che tutti, nei decenni successivi e fino a oggi, hanno potuto beneficiare delle conquiste e dei diritti che chi era dalla parte giusta ottenne sul campo. E pazienza, lo diciamo con tutta la tolleranza del mondo, se tra i costi della libertà ci sono anche i suoi paradossi: della democrazia che germogliò il 25 aprile di settantacinque anni fa oggi beneficiano anche coloro che oggi pretendono di negare questa data, di attribuirle un significati diverso, di annacquarla in nome di una strumentale pacificazione postuma.
Come a dire che chi contribuì alla Liberazione lo fece anche in nome del diritto di dire boiate su di essa, che ancora oggi qualcuno maldestramente esercita. Con risvolti comici, a volte. Ma finché potrà farlo, dovrà ringraziare coloro ai quali oggi continuiamo a dire grazie, perché per ogni anno che passa, il concetto va ribadito con forza maggiore. E se poi fosse vero, come pretende di dire qualcuno, che si tratta soltanto di una celebrazione retorica che non ha nulla a che fare col presente, non starebbero ogni anno a fare cagnara per tentare di offuscarne il significato.
Paolo Marcacci