La domanda che mi pongo è: non staremo forse senza accorgercene divenendo ogni giorno sempre più simili al virus che combattiamo? “Abbiamo scisso – ha scritto Agamben – l’unità della nostra esperienza vitale che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale in un’entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra. La vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica, ha perso ogni dimensione sociale e politica, e persino umana e affettiva”.
Per difendere la vita come sopravvivenza abbiamo sacrificato la vita qualificata, fatta di relazioni e attività, libertà e incontri.
Scrive il filosofo sudcoreano Byung–Chul Han che con la biopolitica pandemica la vita si irrigidisce, diventa mera sopravvivenza. Si fa, ecco il punto, del tutto analoga a quella del virus che andiamo combattendo.
Cosa sono i virus in effetti?
Sono al limite tra la forma vivente e la forma non vivente, sono ciò che oscilla tra la vita e la morte. I virus non sono né vivi né morti, sono dei morti viventi se preferite. Il loro vivere è un sopravvivere, regolato dal mero impulso alla replicazione. Sicché quella del virus è la vita colta nel suo livello più basso, quale acefalo sistema autoreplicante. Ebbene, non è forse sempre più simile a quella del virus quella a cui siamo condannati dal nuovo capitalismo tecnosanitario?
Il nostro vivere da più di un anno si è svilito a mero sopravvivere, a semplice desiderio di conservare la nostra unità biologica. In nome della logica immunitaria siamo disposti a rinunziare a tutto. Ecco che la nostra vita è divenuta un semplice processo biologico che chiede di essere ottimizzato. Diciamolo apertamente: senza accorgercene siamo diventati come quel virus che combattiamo.
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