La “dittatura dell’indignazione” instaurata con le immagini di guerra: così sopprimono ogni critica

Vorrei oggi provare a svolgere alcune considerazioni necessariamente impressionistiche e non esaustive intorno al tema dell’immagine. Quella che stiamo vivendo e anche per molti versi la società dell’immagine, quando non direttamente dello spettacolo. Quella che si sta scontando in queste settimane e anche una guerra di immagini, ove noi non abbiamo mai un contatto diretto con la realtà reale, se così vogliamo appellarla. Abbiamo sempre invece un contatto con la realtà mediata e filtrata dalle immagini. Dunque non con la realtà in quanto tale, bensì con simulacri della realtà, con immagini. E questo deve indurci a una riflessione critica sul tema stesso dell’immagine. A partire dallo statuto stesso dell’immagine in senso ontologico: che cos’è un’immagine? Quale rapporto intrattiene con la realtà?

Si può pensare che una fotografia ad esempio sia un’esatta riproduzione della realtà stessa e dunque sia per così dire la realtà stessa che ci parla per il tramite dell’immagine. Eppure provate a fare un esperimento di questo tipo: in una sala con 100 persone chiedete a tutte e 100 le persone di fotografare la realtà in cui si trovano. Ebbene, non troverete due foto uguali. Ciascuno proporrà un’immagine della realtà che corrisponde alla sua. Non vi è per così dire la sparizione della realtà, quasi come se le immagini non avessero alcun rapporto con la realtà stessa. Vi è invece una interpretazione della realtà.

Ogni nostro rapporto con il mondo oggettivo è sempre mediato dall’attività soggettiva del pensare. Come direbbe Giovanni Gentile, ogni oggetto in realtà è un pensato e ogni pensato presuppone un pensare, dunque ogni oggetto presuppone un soggetto. Non si dà oggetto se non tramite la mediazione del pensare in atto del soggetto. Questo è importante se ragioniamo sul nostro tema. L’immagine non corrisponde alla realtà in quanto tale, ma a un’immagine della realtà mediata dal soggetto che pensa e che ci fa vedere una parte della realtà. Questa considerazione si accompagna a un’altra non meno importante: la realtà mediante l’immagine non appare mai nella sua interezza, l’immagine ci restituisce sempre un frammento della realtà. Quello che mostra l’immagine è il frammento, non la totalità. Ciò che noi vediamo nelle immagini non è mai la realtà tutta, ma un frammento che il soggetto riprendendo quanto detto poc’anzi sceglie di far ci vedere. Vuoi perché convinto che quella sia la realtà. Vuoi perché ideologicamente sceglie di mostrarci quello e non altro.

Insomma dobbiamo davvero essere critici quando parliamo delle immagini. Il rapporto tra immagini e realtà può essere addirittura di dissociazione totale. Quando ad esempio ci mostrano come immagini della guerra d’Ucraina quelle di videogames che ovviamente non hanno alcun rapporto reale con la realtà, essendo in questo caso totale la dissociazione tra immagine e realtà. Ma anche quando osserviamo le immagini di atroce sofferenza che vengono proposti in questi giorni, dobbiamo sempre domandarci se è la realtà tutta o un frammento della realtà. Perché viene ovviamente mostrata con le immagini una sofferenza, ma quale altra sofferenza non è mostrata nelle immagini? Ad esempio, è sempre solo da una parte la sofferenza come ci mostro le immagini, oppure non si trovano forme di sofferenza anche in altro luogo che non hanno diritto ad apparire nelle immagini?; e chi decide quali immagini debbono essere mostrate e quali no?

Non dimentichiamo che l’immagine in chiave politica svolge già da tempo una funzione precisa, che con le grammatiche di Domenico Losurdo chiamerò di “dittatura dell’indignazione”. L’immagine in altri termini quando viene impiegata in chiara allusione funzione e politica serve a determinare una sorta di presa di posizione irriflessa, mediante il sentimento più che la ragione, mediante una sorta di indignazione che immediatamente innesca. Pensate alle scene delle camionette di Bergamo ad esempio del marzo 2020: immediatamente prima di ogni riflessione critica suscitavano indignazione, sdegno, paura. E quindi agivano in una dimensione prerazionale, forse ancora più forte poi rispetto a quella razionale stessa. Allo stesso modo, le stragi che vediamo mediante l’immagine in questi giorni non sortiscono forse un effetto di “dittatura dell’indignazione” tale per cui immediatamente il soggetto prima di ogni riflessione critica, e forse anche a prescindere da ogni riflessione critica, è indotto per non dire costretto a prendere posizione in un certo modo e non in un altro?

Insomma, l’immagine merita davvero un’attenzione critica.

RadioAttività, lampi del pensiero con Diego Fusaro