Una delle imperiture lezioni che apprendiamo dai romanzi di Dostoevskij è anche quella in coerenza con la quale la morte di Dio porta alla morte dell’uomo. Uccidere Dio non significa potenziare l’uomo ma significa porre in essere le condizioni fondamentali affinché morto Dio muoia anche l’uomo.
Questo è ciò che apprendiamo dai tanti protagonisti che animano i romanzi di Dostoevskij, pensiamo al protagonista di Delitto e Castigo, Raskòlnikov, che pensa di essersi liberato della propria coscienza e di aver ucciso definitivamente Dio con l’atto con cui uccide l’anziana e di guadagnare così l’onnipotenza.
In realtà l’uccisione di Dio diventa la premessa per la morte stessa del protagonista, per la sua morte spirituale, per la prigionia, dalla quale si riscatterà solo riscoprendo Dio. Ciò accade anche all’ingegnere Kirillov nei Demoni dove abbiamo a che fare con un soggetto che si toglie la vita e che produce la morte per generosità. Egli aspira a salvare l’umanità dalla tirannia di Dio e in tal guisa a renderla divina.
Per restaurare l’uomo nella sua divinità, il suicidio diviene per Kirillov, il gesto fondamentale, la prova provante che non si teme Dio e che si è riconquistata la propria piena sovranità: “Mi ucciderò per proclamare la mia insubordinazione, la mia nuova e terribile libertà. Quel gesto definitivo mostra l’indipendenza dell’uomo.
La volontà di salvare l’uomo si capovolge nel suo annullamento, vale a dire nel suicidio più insensato. Affiora così con tragico epilogo il nichilismo che insidia quell’amore per l’uomo. Pure con le migliori intenzioni, l’uomo che vuole liberarsi di Dio, spiega Dostoevskij, cade vittima del nemico di Dio, nemico che si vendica delle sue stesse prede e trasforma i loro gesti in insulti alla vita e dunque a Dio.
La lezione di Dostoevskij è anche quella secondo cui la morte di Dio non favorisce un potenziamento della vita dell’uomo o del superuomo, come credeva Nietzsche. Al contrario la morte di Dio trapassa senza soluzione di continuità nella morte dell’uomo stesso che precipita nell’abisso mortifero dell’assenza di senso. La morte di Dio si porta dietro la morte dell’uomo.
Nell’odierno tempo prevale per tutto il giro d’orizzonte l’odore della morte o di una vita ridotta a semplice funzione del morto. L’impero del Capitale del resto è quello in cui i morti dominano i vivi. Le cose valorizzate signoreggiano sugli essere umani svalorizzati. Lo si avverte in ogni contesto: dalla generale ostilità dello spirito del nostro tempo verso la procreazione e i legami stabili vitali, come la famiglia. I fondamenti della vita umana, come la nascita e il matrimonio sono ampiamente depotenziati o , nel caso della morte stessa, sono vissuti come semplice fine di tutte le cose e come salto nel nulla.
L’odore di morte che esala dall’Occidente emerge per converso dalla sensibilità favorevole all’agile disfarsi di ogni corpo che non sia immediatamente inserito nei circuiti del produrre e del principio di prestazione. La de-sacralizzazione della vita è una delle non secondarie conseguenze prodotte dalla de-spiritualizzazione del mondo. Per l’homo religiosus tanto la comparsa della vita, quanto la sua fine sono un mistero sacro.
Per l’homo vacuus che abita la cosmopoli sdivinizzata invece, la vita e la morte sono considerate ora come un impaccio che paralizza o rallenta il produttivismo, questo il caso della natalità ovunque calante in Europa. Ora così avviene per la morte intesa come uno scandalo che interrompe il ciclo del consumo o come una necessità inutili dal punto di vista della società dell’efficientismo indefesso.
RadioAttività, lampi del pensiero con Diego Fusaro