I morti sul lavoro aumentano. Nel 2022 sono molti di più e tuttavia sembra che poco importi alla politica, alla società e in generale agli italiani stessi. A rilevare questo tragico dato sono i dati Inail che rilevano come palesemente per il 2022 si registri un ragguardevole incremento dei morti sul posto di lavoro. Si parla in particolare di oltre 60 morti nei primi 4 mesi del 2022. Per non parlare poi dei 254mila infortuni, sempre sul posto di lavoro. Dati che sono l’equivalente, inutile negarlo, di un pugno nello stomaco. Dati che rivelano (se ancora ce ne fosse bisogno) come la condizione lavorativa sia esente dal sempre celebrato progresso, di cui tanto si gloria senza posa la civiltà neoliberale. Essa fa coincidere il progresso, in verità, con l’avanzamento tecno-scientifico e con i traguardi del capitalismo senza frontiere.
Senza esagerazioni e perifrasi, quello che viene celebrato come progresso, coincide in parte con un barbaro regresso delle condizioni del lavoro e dello stato sociale e ciò vale per tutto l’Occidente del mondo, compresa naturalmente la nostra sventurata Europa che già da tempo ha preso a essere considerata e trattata come colonia tra le tante da parte del capitale.
Sì, quell’Europa che un tempo era il paradiso del capitale, già da tempo, grazie ai processi di globalizzazione infelice e di neo-cannibalismo liberista, ha preso a essere considerata e trattata come una colonia fra le tante. Basti considerare che le condizioni di lavoro, dall’89 ad oggi sono calanti ovunque. Fino ad arrivare al nostro presente in cui aumentano i morti sul lavoro, si abbassano le condizioni ai diritti e tutto ciò viene salutato dalla neolingua liberista come giustizia, come fine dei privilegi.
“I lavoratori erano avvezzi a vivere al di sopra delle loro possibilità”, così va ripetendo il logo unico neoliberale e adesso quindi bisogna tornare a vivere secondo le possibilità offerte dal neoliberale. I diritti vengono presentati come privilegi e vengono rimossi dicendo che ciò è giusta lotta contro i privilegi. Si potrebbe anzi ragionevolmente dire che i processi di globalizzazione (contrariamente al modo con cui vengono continuamente magnificati dagli aedi del pensiero unico neoliberale, dai poliorceti, dai diritti che vengono scalfiti uno dopo l’altro) ebbene, la globalizzazione, ponendo in essere la competitività su scala planetaria, determina un rapido, un celerrimo regresso delle condizioni lavorative, in quella parte Occidentale del mondo in cui il lavoro, grazie alle sacrosante lotte di classe, aveva raggiunto un certo grado di protezione e tutela.
Per questo motivo, la globalizzazione, come ho più volte ricordato, andrebbe definita e inquadrata come ‘glebalizzazione’. Vale a dire come produzione di una nuova servitù planetaria che si esprime precipuamente nelle condizioni lavorative: quelle condizioni che, per l’appunto, generano il numero di morti di cui stiamo discutendo, oltre che altri fenomeni patologici tra i tanti dei quali voglio ricordare quello dei working poor ossia della nuova figura del lavoratore che, pur lavorando, continua a rimanere povero. Le magnifiche sorti del capitalismo.
Questa è la scena, questa è la situazione del mondo, insomma possiamo dirlo: globalizzazione non fa rima con democrazia e con diritti. Tutto il contrario, globalizzazione non vuol dire che i diritti dell’Occidente si traslano a Oriente, come ripetono le anime belle del globalismo. Tutto al contrario.
Grazie ai processi di globalizzazione (cioè di competitività senza frontiere) saranno i lavoratori occidentali – come già è – a perdere i loro diritti, proprio perché dovranno essere competitivi con chi di diritti non ne ha: ad esempio in Bangladesh e in India. Ecco svelato l’arcano della globalizzazione. Ecco perché il padronato cosmopolita vuole il mondo senza confini, cioè senza tutele e senza possibilità di contenere politicamente l’economia globale.
RadioAttività – Lampi del pensiero quotidiano, con Diego Fusaro