La globalizzazione turbo capitalistica mira a distruggere, tra le altre cose, anche le identità dei popoli e degli individui. La sua cifra fondamentale, il neutro o, avrebbe detto Carl Schmitt, la neutralizzazione. Neutralizzazione intesa nella duplice accezione della distruzione di tutto ciò che sia non omogeneo alla globalizzazione capitalistica in quanto tale. E poi insieme la produzione del neutro, la decostruzione di tutte le identità intese come non disponibili alla mercificazione. L’opera di disidentificazione, termine con il quale alludiamo alla distruzione organizzata dell’identità, si presenta anche puntualmente a tavola, perché in effetti le identità dei popoli e delle culture trovano nell’espressione alimentare una delle loro manifestazioni più importanti e davvero degne di attenzione.
Sì, perché ciò che mangiamo non è soltanto l’elemento materiale che ci permette di nutrirci e di vivere materialmente. Ciò che mangiamo è anche culturalmente determinato. Sicché quando Feuerbach diceva “l’uomo e ciò che mangia”, possiamo dire che si potrebbe tradurre quella formula non solo nell’accezione puramente materialistica in cui la intendeva Feuerbach, ma anche in una più alta accezione culturale noi siamo ciò che mangiamo, perché ciò che mangiamo è denso della nostra cultura e della nostra tradizione.
Ecco perché la globalizzazione turbo capitalistica mira, in nome del progressismo neoliberale, ad abbattere ogni tradizione e ogni cultura, anche a tavola. Per questo la globalizzazione non è un pranzo di gala, parafrasando il Presidente Mao. E proprio come produce un pensiero unico politicamente corretto, genera anche a propria immagine e somiglianza un piatto unico gastronomicamente corretto. A questo riguardo, qualche giorno addietro compariva su Il Giornale un titolo davvero degno di nota “Un altro cibo Frankenstein. Arriva pure il formaggio transgenico”. Insomma, nemmeno il cacio viene lasciato in pace. Di questi tempi tutto tende a diventare transgenico. Del resto il superamento del limite, è una delle cifre portanti della civiltà del capitale, come l’ha studiata Carlo Marx, il quale diceva che il Capitale è senza misura e quindi, per sua essenza tende a superare ogni confine nell’ambito delle robotica come nell’ambito gastronomico. Qualche giorno addietro peraltro sul cinguettatore detto Twitter, Cecchi Paone diceva che, come già l’insulina si produce con materiale sintetico e non più con i maiali realmente dati o non principalmente con i maiali reali, così anche la carne che mangeremo a tavola sempre più diverrà carne sintetica.
Lo diceva con sicumera, presentando il tutto come un dato di fatto, sic! Insomma, come se i dati di fatto dovessero solo essere accettati e mai essere contestati. E proprio in ciò vi è un elemento davvero degno di nota che andrebbe ripreso e analizzato. Insomma, vi è un elemento di distruzione dell’identità in tutto questo, naturalmente, ma vi è anche un elemento economico che procede di conserva, perché mentre i ricchi continueranno a mangiare carni prelibate piemontesi o toscane e formaggi prelibati sardi o francesi, per i ceti più deboli, in futuro si porrà l’esigenza evidentemente di mangiare larve, insetti presentati come nutrienti e di mangiare formaggi e carni sintetiche. Insomma, nessuno li costringerà a farlo se non la loro condizione economica, secondo la più tipica delle espressioni della libertà liberale, quella che ti dice nessuno ti obbliga a fare ciò e poi tuttavia la tua condizione economica non permette alternative. Insomma, ancora una volta possiamo ripetere la globalizzazione non sarà e già non è ora, un pranzo di gala.
Radioattività – Lampi del pensiero quotidiano con Diego Fusaro