Si fa un gran discutere in questi giorni circa la scelta, molto discussa e molto discutibile per molti versi del governo, di abolire il reddito di cittadinanza. In sostanza il governo della destra neoliberale bluette e atlantista di Giorgia Meloni ha fatto dell’abolizione del reddito di cittadinanza uno dei propri vessilli di riferimento. Non sapremo se ciò effettivamente avverrà e in che tempi, ma sicuramente il governo di Giorgia Meloni ha insistito ad abundantiam su questo tema. E allora dobbiamo porci seriamente la domanda fondamentale (la Grundfrage, direbbero i tedeschi): è giusto o ingiusto abolire il reddito di cittadinanza?
Per poter rispondere a questa domanda dobbiamo anzitutto comprendere come è nato il reddito di cittadinanza, su quali presupposti e con quali esiti. Diciamolo apertamente, l’idea del reddito di cittadinanza, per come era stata originariamente formulata, non era da respingere, anzi. L’idea doveva essere quella di un salvagente, se vogliamo usare una metafora nautica in grado di dare temporaneo supporto a chi, per una ragione o per un’altra, si fosse trovato in difficoltà. Padri di famiglia che perdevano il lavoro, madri che per una situazione precaria dovevano trovarsi in difficoltà con figli a carico.
In sostanza era uno strumento welfarista, temporaneo, in vista dell’inserimento o del reinserimento nel mondo del lavoro. Questa era la ratio essendi originaria del reddito di cittadinanza che purtroppo, come spesso accade in Italia, è stata snaturata. E un poco alla volta il reddito di cittadinanza si è mutato in ciò che attualmente è una forma di assistenzialismo sine die. Pensato come se dovesse rimanere per tutta la vita per chi lo percepisce.
Non stupiscono a questo riguardo le interviste di signore e signori che dicono “come farò a vivere in futuro senza il reddito di cittadinanza?”, di fatto già dando per scontato che esso possa costituire un orizzonte permanente di vita. E tuttavia va detto che all’inizio, come ricordavo, aveva una nobile origine. Anche perché per la prima volta va detto col governo gialloverde – populista e sovranista – sorto nel 2018, venivano usati soldi pubblici non per donarli a banche in alto, dette troppo grandi per fallire, ma venivano finalmente destinati in basso a chi ne aveva realmente esigenza. Ora, se è vero, come è vero, che il reddito di cittadinanza nasce con nobili intenzioni e con nobili motivi, e se è vero altresì che oggi si è rovesciato dialetticamente in una sorta di assistenzialismo sine die, va altresì detto che occorre capire che farne, perché le prospettive sono due: o mantenerlo in chiave assistenzialistica, come molti vorrebbero fare, o toglierlo totalmente come vuole fare così pare, il governo di Giorgia Meloni.
Io mi oppongo personalmente a entrambe queste prospettive e ne rivendico una terza. Dobbiamo superare dialetticamente il reddito di cittadinanza, avrebbe detto Hegel con la Aufhebung, con il superamento dialettico. Con ciò intendo che dobbiamo certamente andare oltre il reddito di cittadinanza così come è stato praticato negli ultimi tempi, ma dobbiamo in qualche modo non buttarlo a mare come vuole fare il governo di Giorgia Meloni. Dobbiamo superarlo in una vera forma welfarista che sia prodromica rispetto all’impiego da un punto di vista socialista. Il lavoro e soltanto il lavoro genera emancipazione e dignità dell’uomo. Occorre superare il reddito di cittadinanza in una forma più adeguata, di tipo welfarista o di tipo assistenziale, sì, ma in vista dell’inserimento nel mondo del lavoro. Quindi sia tenerlo così com’è, sia buttarlo tout court a mare, mi paiono prospettive false nella loro unilateralità e nella loro opposizione totale. Noi dobbiamo superare il reddito di cittadinanza conservando l’idea del welfare a sostegno dei più deboli e superando l’idea che debba essere un welfare garantito a prescindere dal lavoro.
RadioAttività, con Diego Fusaro