È ufficiale, la cucina italiana è stata eletta la migliore del mondo e soltanto ottava è risultata invece quella francese. Così leggo sul Corriere della Sera ed è davvero una notizia da accogliersi con giubilo, dacché finalmente la grandezza della cucina italiana, sintesi virtuosa di sapore, di tradizione, di identità e di piacere a tavola, è stata giustamente riconosciuta in tutto il suo splendore.
Ebbene, possiamo allora ripetere ciò che più volte abbiamo segnalato e che merita davvero di essere valorizzato, ossia il fatto che il cibo non è soltanto un elemento materiale, come taluni ancora oggi inopinatamente vanno sostenendo. Nel cibo si condensano invece le tradizioni, le identità, le culture e lo spirito di un popolo. Anzi, possiamo dire, senza tema di smentita, che l’orgoglio di un’identità nazionale si misura anche dalla sua cultura a tavola. L’identità, dunque, si dispone anche nel modo specifico in cui mangiamo. E se volessimo riprendere la fortunata frase di Ludwig Feuerbach secondo cui “Der Mensch ist, was er isst” (“l’uomo è ciò che mangia”), potremmo dire, appunto, che l’uomo è ciò che mangia non solo nel senso materiale – per cui noi effettivamente siamo ciò che introduciamo nel nostro corpo – ma anche nell’accezione culturale identitaria.
Noi siamo l’identità che veniamo acquisendo mediante i cibi che possiamo mangiare. Effettivamente l’identità italiana si misura anche dalla sua specificità gastronomica ed è per questo che il progetto della globalizzazione turbocapitalistica si abbatte con tanta veemenza contro le identità gastronomiche. Poiché la globalizzazione mira a produrre l’uomo svuotato di identità, l’uomo post-identitario nella società post tradizionale, come l’ha definita Anthony Giddens, non stupisce che vi sia un accanimento particolare contro le identità gastronomiche.
L’Unione Europea, sotto questo riguardo, si rivela particolarmente pugnace nella lotta contro le identità culinarie, quasi come se il pensiero unico politicamente corretto desse luogo a propria immagine e somiglianza a un piatto unico gastronomicamente corretto. E così, proprio mentre l’Italia viene riconosciuta per la sua grandezza identitaria, a tavola scopriamo che l’Unione Europea approva la polvere di grillo come alimento. Naturalmente ai piani alti continueranno a nutrirsi di caviale e aragosta, mentre ai piani bassi vi saranno le larve, gli insetti e la polvere di grillo. Ed è effettivamente un condensato perfetto, direi, di quella che ho definito più volte la globalizzazione, che è il modo in cui deve essere pensata la globalizzazione, se guardata dal basso.
Se guardata dall’alto con il punto di vista dei gruppi dominanti, la globalizzazione è l’ottava meraviglia, dacché permette di imporre le leggi del mercato e del più forte su scala planetaria, poiché consente di abbassare i costi del lavoro grazie al dumping salariale e alla concorrenza planetaria. Ma, se guardata dal basso, dal punto di vista di chi la subisce sulla propria carne viva, la globalizzazione coincide invece con la glebalizzazione, ossia con un massacro di classe che si manifesta oltretutto anche a tavola, sul piano dell’identità e sul piano della qualità del cibo. Ecco perché per difendere appieno chi siamo dobbiamo difendere anche ciò che mangiamo. Dobbiamo difendere anche la nostra identità culturale.
Quale si dispone a tavola? E quale miglior modo per farlo se non valorizzando appieno la nostra grandezza identitaria e culturale a tavola? Quella che ha voluto che l’Italia sia classificarsi prima al mondo in tempi recentissimi? Ecco dunque che dobbiamo difendere chi siamo, difendendo anche ciò che mangiamo.
RadioAttività, con Diego Fusaro