Ricordate quando ci lasciarono in casa (anche) con la scusa del “proteggere gli anziani”?
Ci sono casi in cui questo paradigma – costato la salute psicologica a molti – traballa seriamente. In cui la teoria della cura per la nostra salute viene spazzata via dalla cronaca.
E’ accaduto a una signora di 90 anni, diabetica, con lo stesso diritto di vivere ed essere trattata come un paziente nel fiore degli anni in un sistema sanitario che si rispetti. Senza contare che “quelle persone fino a quando respirano sono i nostri affetti“.
La considerazione del direttore Ilario Di Giovambattista rende questo racconto del Dott. Alessandro De Monte ancor più amaro.
Il referente dello Sportello Legale Sanità di casi del genere ne ha visti parecchi, pur nascondendo a fatica indignazione e rabbia. Per fortuna si tratta, rispetto al totale dei casi di malasanità esaminati, di 1 caso su 10: i sanitari agiscono correttamente la stragrande maggioranza delle volte.
Certo è che in quel caso su dieci il conto è salato a tal punto da diventare inaccettabile.
Tornando al caso specifico, era l’11 febbraio 2022 quando un’anziana viene trasportata dal 118 in uno dei più famosi ospedali di Roma.
“La signora ha un dolore al torace e anche un po’ di febbre. Il medico che la vede nota che fa fatica anche a respirare, richiede quindi una visita cardiologica e un elettrocardiogramma“.
Passano 3 ore, nessuno ha ancora fatto niente. Viene richiesto nuovamente l’elettrocardiogramma e la visita cardiologica: per la seconda volta, nulla di fatto.
Viene notato che la signora ha fatto già tre vaccinazioni per il Covid. Le fanno un test, risulta negativo. Alla fine la paziente non fa né visita cardiologica, né elettrocardiogramma: viene trattenuta in barella avendo fatto due test per il Covid.
“Gli esami del sangue a quel punto fanno vedere che c’è un movimento degli enzimi che indicano una condizione di sofferenza miocardica“. Ora, attenzione, la signora ha 90 anni, non può vedere alcun parente e immaginiamo come si approccia ai cellulari. Il 12 gennaio quindi viene lasciata tutto il giorno, senza fare nulla, in pronto soccorso.
Il giorno seguente viene riportato che la paziente è stabile. Poi nuovo test per il Covid, di nuovo negativo.
Poi la constatazione: “Un medico che entra in turno si rende conto che la paziente è stata contenuta. Le avevano legato le braccia“.
il 14 gennaio la signora fa sempre più fatica a respirare, “ma non viene fatto nulla se non l’elettrocardiogramma“. Il 15 gennaio le vengono fatti gli esami del sangue; nel frattempo i parenti sono ancora fuori, chiedono informazioni.
“Viene visto che la troponina, cioè l’enzima che ci indica la sofferenza cardiaca, è schizzato in alto“.
La cardiologa arriva solo a quel punto, quattro giorni dopo essere stata chiamata. Riesce a fare un ecocardiogramma e trova che il cuore sta lavorando al 30% della sua capacità, “ci sono inoltre segni che lasciano pensare a un infarto miocardico avvenuto“.
La troponina viene ritestata, ed è ancora aumentata. Cosa dice la cardiologa? Che la signora aveva anche un po’ di polmonite, “potrebbe esserci un infarto, ma non ne sono sicura, comunque non credo sia una condizione d’urgenza“.
Nuovo test per il Covid. Risultato negativo.
Il 16 gennaio la paziente è ancora in barella. “Per tutto il giorno non sappiamo cosa le viene fatto, non si trova assolutamente nulla“.
Alle 20:30 viene richiesto un nuovo test per il Covid. Test di cui non sapremo mai l’esito, visto che la paziente è deceduta.
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