8/5/1983: la Roma è diventata grande

L’inizio dell’era Viola

La storia della Roma è non solo cambiata, ma letteralmente rinata quando il destino del club giallorosso ha intersecato quello di questo dirigente dal profilo affilato e naturalmente aristocratico, dal sorriso tagliente che sapeva anche essere sprezzante, quando c’era da utilizzare il sarcasmo indispensabile nelle dure, estenuanti battaglie politiche e dirigenziali; dagli occhi che però si facevano dolci quando lo sguardo si rivolgeva al popolo dei tifosi romanisti, alla Curva Sud figlia prediletta anche quando aspro si faceva il dissenso.
Anche come presidente è stato un uomo di confine, in effetti, perché tutti quelli che cambiano una storia, qualsiasi storia, lasciano l’eco di un prima e di un dopo, quando si pronuncia il loro nome.

Il barone, Nils Liedholm

Se Milano è stata una moglie, Roma è stata un’amante per Nils Liedholm, lasciata a più riprese e sempre ritrovata, vissuta fino in fondo e forse ancora più fedele, nell’affetto, rispetto alla città dei navigli.
La prima volta fu a metà degli anni settanta, ancora Rometta a cui era proibito qualsiasi sogno di gloria; la seconda fu vera gloria, passateci la ripetizione vagamente manzoniana: gli anni ottanta, Dino Viola, la regia tattica di Falcao che era la sua proiezione in campo, le ambizioni che diventano legittime, lo scudetto che scende sotto la Linea Gotica, l’aplomb fuori dallo spogliatoio, il pugno duro dentro, all’occorrenza. 

Tancredi, le mani sullo scudetto

Un metro e 76, per poco più di 70 chili di peso, che l’istinto e la concentrazione proiettavano oltre le proprie, contenute dimensioni: non c’era punto dello specchio di porta dove non riuscisse ad arrivare per primo, Franco Tancredi, con l’atteggiamento compìto e l’espressione semplice di chi non sta compiendo altro che il proprio dovere.
Il fatto è che intere generazioni di tifosi romanisti quel dovere lo definirono, centinaia di volte, “miracolo“, acciuffato persino con quella che, tra le due mani, era la più distante dalla minaccia. Ma quante mani avesse in realtà, non si è mai capito del tutto; resta il ragionevole dubbio che le moltiplicasse nella misura in cui il tiro appariva imprendibile agli occhi degli altri.

Capitano mio capitano: Agostino Di Bartolomei

Agostino Di Bartolomei, un nome che esce dalla galleria di calciatori e uomini rari.
Anzi: di uomini che sarebbero stati rari anche se non avessero fatto i calciatori.
Figlio di una Roma autentica al punto tale da non aver nulla a che spartire né con gli stereotipi da cartolina, né con la macchietta ruvida e usurata della borgata usata e abusata dal cinema; Agostino Di Bartolomei da Tor Marancia era già giocatore, mentre ancora aspirava a diventare tale. È l’inconsapevolezza dei predestinati, quella che li porta a vivere ogni tappa che li avvicina al successo con la naturalezza con cui si sale un gradino.

Fiumicino, arriva un certo Falcao

Riusciva a far passare quello che aveva in testa per i piedi degli altri; un indovino dalla logica cartesiana: leggeva il futuro dell’azione, era in grado di migliorarlo nel corso del suo sviluppo. Regista? Centromediano? No, veggente di centrocampo e per chi l’ha visto giocare non c’è bisogno di illustrare il concetto.
Giocare, poi: non sarà anche questo un verbo riduttivo, poco bastevole a definire un Fellini col cappotto numero cinque che scriveva trama e copione della partita, via via più lucido col trascorrere dei minuti, mentre tutt’intorno montava la marea dell’acido lattico?

Aldo Maldera

Che tipo di giocatore è stato? Un terzino – oggi lo definiremmo esterno basso – dalla corsa agile, dall’eccellente bagaglio tecnico e quindi capace di controllare il pallone anche in progressione; dal sinistro morbido quando si tratta di piazzare i cross dal fondo, potente e preciso nelle occasioni –  frequenti, nel suo caso – in cui c’è la possibilità di inquadrare la porta.
Quest’ultima attitudine la affina soprattutto grazie a Nils Liedholm, il quale lo spinge a utilizzare quel piede mancino non solo per buttare la palla in mezzo all’area, ma anche per battere a rete dalla distanza, in virtù delle sue innate doti balistiche. 

Brunoconti: si scrive tutto attaccato

Cominciamo col segno dei Pesci, allora, da quell’indole nata per sorprendere, da quell’istinto di non volere né potere mai procedere in linea retta. È il segno del dribbling, del percorso che scioglie i suoi nodi proprio quando agli occhi degli altri sembra farsi più complicato e tortuoso; della palla che scompare proprio quando ti sembra che il piede del difensore abbia azzeccato il tempo per spegnere sul nascere un tiro che improvvisamente non c’è più, nascosto agli occhi e alle caviglie degli altri.

Prohaska, la lumachina tricolore

Il suo modo di giocare, sempre costruendo e raramente sbagliando, è una cartolina dall’epoca in cui tempi e ritmi erano giustificati dall’esibizione di un’elevatissima qualità media: questo spiega anche perché un giocatore come lui, che oggi sarebbe titolare inamovibile in ognuna delle formazioni che si contendono il vertice della Serie A, nei primi anni ottanta abbia corso il rischio di essere considerato un giocatore “normale”.
Era tutt’altro, invece, e in ogni caso era molto di più, questo lo si sarebbe capito col passare del tempo: ogni volta che viene celebrato il secondo scudetto romanista, sempre più si rende merito al suo apporto e al suo bagaglio tecnico.

Lode a te, Roberto Pruzzo 

Lui ancora non lo sa e la città stessa non può averne la percezione ma, per i colori giallorossi, il suo acquisto segna il confine tra due ben distinte epoche romaniste: è l’ultimo, oneroso atto della presidenza di Gaetano Anzalone; sta per cominciare l’epoca di Dino Viola.
Il nuovo centravanti, baffuto e dallo sguardo inquieto, è il primo volto tra quelli che negli anni a seguire incarneranno una Roma finalmente rispettata, temuta e vincente. Alle sorti giallorosse, legherà il suo nome per dieci anni, fino all’estate del 1988, quando sceglierà di proseguire la carriera, per un altro anno ancora, con la maglia della Fiorentina. 

Vincerà tre titoli di capocannoniere con la Roma: 1981, 1982, 1986.
Metterà in bacheca quattro Coppe Italia e lo storico scudetto del 1983; la gratificazione dei numeri e della statistica ci porta inoltre a citare 138 goal complessivamente, di cui ben 106 in Serie A.
Nessun dato numerico potrà però mai rendere l’idea della suggestione e dell’impatto emotivo che ancora oggi, al solo evocarli, suscitano i goal di Roberto Pruzzo nella memoria storica romanista, pietre miliari di un cammino che iniziò a diventare glorioso proprio quando la firma del brontolone genovese iniziò a tracciarne il sentiero.