L’incidente è “soltanto” la conseguenza.
Dovremmo porci, tutti, una serie di domande sul perché un ragazzo pensa che dovrebbe essere “fico” o far ridere un video come quello postato prima della tragedia. Perché declina, con espressione a metà tra grottesca e forse alterata, quelli che sono i suoi “valori”, quando paragona la macchina da pezzenti a quella da miliardari. Perché sa che così facendo moltiplicherà i suoi like e i suoi guadagni. Perché uno youtuber da qualche tempo esercita spesso più fascino di un calciatore e perché sempre più ragazzini sognano di fare quello da grandi, invece di un debutto in Serie A, di un posto nei più prestigiosi corpi di ballo, di un ruolo da protagonista in un film. Tutti perché senza punto interrogativo, in una lista che potremmo allungare chissà quanto: vuol dire che da domande si sono trasformate in risposte, o meglio in “sentenze”, nelle quali dovremmo leggere tra le righe la nostra condanna. E basta con il “voi” o con il “loro”: cominciamo a dire che anche se ci sentiamo assolti, siamo lo stesso coinvolti, come cantava uno che aveva dimostrato di sapere anche come e cosa saremmo diventati.
Siamo coinvolti come genitori, generazione – ponte già viziata da chi ci ha preceduto e sempre più distratta dai nostri egoismi, che si chiamino impegni di lavoro o spazi che reclamiamo. Coinvolti come insegnanti – una delle professioni di chi scrive, quindi in qualche modo un’autoaccusa – costretti a lavorare in una scuola sempre più votata al raggiungimento di una serie di obiettivi burocratici, a catalogare gli studenti in fasce di livello (ma non per esaltare il merito) come i gradi di stagionatura del Parmigiano; senza tempo o spazio per rivolgersi agli studenti come individui, per cercare di trasmettere loro l’idea del bello, ancor prima che del giusto; di quanto sia poi importante ottenere le cose attraverso un percorso di impegno e non “impegnarsi” a studiare una scorciatoia per diventare famosi e sempre più ricchi attraverso una serie di idiozie vomitate sul web.
Ma l’avremo poi ancora, qualcosa da trasmettere? Siamo sicuri di non essere diventati nel frattempo noi degli annoiati, alienati, sostanzialmente disinteressati con la scusa dei nostri impegni?
Se sempre più ragazzini non riescono a mantenere l’interesse per la durata di un film o di una partita di calcio – entrambi ormai giudicati troppi lunghi e noiosi per la soglia di attenzione media – e hanno bisogno di far lavorare i neuroni in modo da generare continua adrenalina; se guardano come miti da ammirare e imitare non solo e, col tempo, non più le campionesse e i campioni dello sport, che arrivano alla gloria attraverso la fatica, ma le star (senza virgolette perché lo sono realmente) di internet che moltiplicano il loro seguito anche semplicemente dicendo parolacce, non sarà che la colpa è di chi ha trovato comodo per troppe volte “parcheggiare” i ragazzi in questo modo?
Siamo coinvolti anche solo semplicemente come osservatori passivi di una società che continua a prendere semplicemente atto di ogni peggioramento dei costumi e dei comportamenti, che poi sono il terreno sul quale compiono i primi passi quelli che vengono dopo di noi.
Mentre noi commentiamo, fino alla prossima occasione in cui qualche innocente pagherà per le scelte di qualche demente annoiato e dissociato dalla realtà, protetto poi da una strategia legale efficace e costosa, i video di questi ricchi disadattati che ostentano il privilegio non della Lamborghini, ma di poter apparire i coglioni che sono diventati sotto i nostri occhi, otterranno molti like e diffusioni in più, tra risate e ammirazione di giovanissimi che ne scimmiotteranno modi di parlare e di gesticolare.
Ecco perché chi pensa di non avere la sua percentuale di responsabilità non è semplicemente indifferente: è una parte del problema.
Paolo Marcacci