Da copione consolidato, tutte le volte che siamo alla vigilia del cosiddetto “Gay Pride“, monta una polemica.
La polemica monta perché gli organizzatori del Gay Pride sono organizzatori che si muovono tramite una macchina perfetta.
E sanno che il Gay Pride, essendo una grande macchina, non deve incepparsi: in ogni fase bisogna ottimizzare il risultato.
Innanzitutto in termini di comunicazione: bisogna far parlare del Gay Pride.
Perché questa non è soltanto la manifestazione dei gay che serve per “rivendicare i diritti”. No.
Innanzitutto è una grande macchina da soldi, perché c’è una vera e propria economia che gira attorno ai Gay Pride.
Ci sono delle delle rassegne parallele.
C’è un mondo che fa soldi attorno a questa grande festa.
Dunque il Gay Pride deve in qualche modo far parlare di sé, bisogna portarci più gente possibile.
E come fare? Creando il presupposto della comunità.
Bisogna sentirsi sotto attacco. Bisogna venire a manifestare perché il Gay Pride è il luogo della protesta, della rivendicazione.
È il luogo della piattaforma politica. E quindi male fanno coloro che abboccano tutte le volte al gioco costruito ad arte da questi signori, che sono dei veri e propri professionisti. Perché il Gay Pride è una piattaforma politica?
Perché è l’occasione per far parlar. È l’occasione per muovere questa macchina da soldi, meccanismo che è proprio di chi sa organizzare le kermesse. E poi perché porta avanti una piattaforma di rivendicazioni continue.
Ogni volta dicono: “I diritti delle coppie gay sono sotto assedio“, “I diritti degli omosessuali della comunità LGBT sono sotto assedio e minacciati“.
Poi vai a vedere e ti accorgi che tutte le volte questa minaccia non è nient’altro che il tentativo di avanzare ancora di un passo, per delle rivendicazioni che a questo punto non attengono più alla questione fondamentale del riconoscimento delle coppie omosessuali.
Viviamo ormai dentro un un modello di società dove ci sono coppie omosessuali, dove, diciamocela tutta, vivono tranquillamente la loro vita.
Il tema è un altro. Il tema è, come dicevo, conquistare ogni volta un pezzo in più.
Ad un certo punto la politica deve dividersi. E non deve sentirsi sotto processo perché dice: “Io fin qua vi ho accompagnati in un processo condiviso, perché non ci deve essere discriminazione“. Ma qui non è più un discorso di discriminazione: qui è un discorso che sta andando e sta spingendo nella propaganda delle questioni LGBT.
Io penso che non sia più ammissibile che in età adolescenziale vi sia una una propaganda di questi temi fatta in maniera così eclatante.
Eclatante che addirittura nelle classi vi sono dei registri delle cosiddette “comunità” o “generazione alias”, dove gli adolescenti, che già sono in piena crisi per fatti propri, per modelli sociali che sono veramente molto competitivi, debbono anche sentirsi in competizione con loro stessi. E a loro viene detto: “Tu non sai, ed è giusto che tu lo capisca progressivamente, se effettivamente sei maschio nonostante tu abbia l’identità maschile. O se tu hai un’identità femminile. Quindi è giusto che tu possa rivendicare una fase di passaggio e dirti ‘Io sono altro’“.
E cari professori e caro mondo della scuola e cara burocrazia, mi dovete riconoscere questa condizione.
Questo è un passaggio di una predicazione cui politicamente non la si deve accettare.
Ecco perché è giusto dividersi. E non permetto e non consento a nessuno di farmi dare delle “patenti di modernità”, altrimenti finisci nell’agenda della discriminazione. Qui non si sta discriminando più nessuno.
Si sta facendo un qualcosa di negativo nei confronti degli altri mettendo già in dubbio l’identità nel processo di formazione: ciò che caratterizza, in una fase difficile, il ragazzo o la ragazza.