Si è verificato purtroppo nei giorni scorsi l’ennesimo episodio di violenza.
Questa volta a essere oggetto di un attacco violento è stata l’ambasciata americana di Beirut, la quale ambasciata americana di Beirut è stata letteralmente presa d’assalto da manifestanti furenti che indicano negli Stati Uniti d’America il problema dei problemi, e che si sollevano ora in relazione alle vicende palestinesi, soprattutto in relazione alle rappresaglie che Israele sta intentando senza pietà contro il popolo palestinese. Chiamando, more solito, “diritto alla difesa” la propria libertà di aggredire imperialisticamente il popolo palestinese, sottoponendolo alle pratiche più efferate e disumane.
La vicenda deve naturalmente essere letta in questo quadro, come momento fondamentale dello scontento, del disdegno e della rabbia crescente in relazione al conflitto tornato a scaturire, e mai sopito, tra Israele e Palestina.
Un conflitto che sta letteralmente dividendo il mondo, peraltro riproponendo la dicotomia ormai collaudatissima tra Occidente liberal-atlantista e Oriente disallineato. Da una parte dunque gli Stati Uniti d’America e le loro colonie, tra cui l’Unione Europea, dall’altra i BRICS, la Cina, la Russia e tutti coloro i quali, per una via o per un’altra, sono giunti all’opposizione integrale rispetto al modello americano e all’imperialismo di Washington. Anche la Cina, per inciso, dopo un’iniziale neutralità, si è recentemente schierata in toto dalla parte dei palestinesi, come già, tra l’altro, aveva fatto la Russia, rivendicando per la Palestina il diritto a essere uno Stato sovrano e autonomo.
La vicenda dell’aggressione all’ambasciata americana di Beirut chiede altresì di essere interpretata come una nuova ondata di insofferenze e di protesta, nelle sue forme anche più radicali, contro l’imperialismo made in USA.
Vale a dire contro quell’imperialismo coincidente con la globalizzazione neoliberale che continua a pie sospinto a colonizzare il mondo.
E che lo fa ipocritamente presentandosi come vettore di democrazia e di libertà, di diritti e di pace. Un imperialismo etico potremmo anche qualificarlo dispiegando una formula volutamente ossimorica e quasi orwelliana.
Una formula quasi orwelliana che tuttavia ha il pregio di rendere conto dell’ambiguità e dell’ipocrisia del regime narrativo con cui Washington continua a chiamare “pace” la guerra e “esportazione della democrazia” l’imperialismo.
La domanda da porre è allora una sola, che è fondamentale e direi anche imprescindibile: quali saranno le conseguenze di tutto ciò?
Siamo già de facto entrati in una nuova guerra mondiale tra Occidente e Oriente, peraltro già aperte e visibile sia sul fronte ucraino sia su quello palestinese? Siamo già scivolati senza che nemmeno ce ne accorgessimo in un nuovo conflitto di portata mondiale?
Molti si domandano se siamo destinati a entrare nella guerra mondiale.
In realtà dovremmo domandarci se già non siamo a tutti gli effetti entrati nella guerra mondiale, stando le cose come abbiamo provato succintamente a definirle poc’anzi. Non si dimentichi oltretutto che anche la Siria di Assad in questi giorni ha puntato il dito direttamente contro Washington, additando la civiltà del dollaro come principale responsabile di tutto ciò che sta accadendo e soprattutto della violenza inqualificabile contro il popolo palestinese.
Resta aperta naturalmente la domanda centrale in questi giorni che così suona: chi ha letteralmente aggredito e fatto saltare in aria l’ospedale di Gaza? I palestinesi, come sostengono gli israeliani? O Israele, come pare più plausibile, come gesto estremo e osceno di rappresaglia? Quale che sia la risposta effettiva alla domanda, se ne evince in ogni caso che siamo davvero entrati di fatto in un conflitto esplosivo e di portata mondiale.
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