Anche alla luce dei più recenti e surreali eventi tanto discussi in questi giorni, possiamo dire senza tema di smentita che stiamo vivendo, nostro malgrado, nella grigia epoca degli influencer. Epoca che segna sotto ogni profilo il trionfo dei “selfie della gleba” e degli “egomostri”.
È l’epoca in cui, non v’è dubbio, il far sapere spodesta il saper fare.
Il trionfo della società dello spettacolo, dunque, come la qualificava Guy Debord, la società nei cui spazi blindati e alienati, il soggetto decade sempre più palesemente a semplice “startupper”, che non ha un’impresa, ma è esso stesso un’impresa autovalorizzantesi potenzialmente all’infinito. Il soggetto diviene così un soggetto imprenditoriale che deve mettere a profitto se stesso, esponendosi continuamente in vetrina sui social, e deve altresì essere disposto a tutto e di più per autovalorizzarsi potenzialmente all’infinito.
Si tratta, è bene sottolinearlo, di una società di atomi per i quali tutto, a partire da se stessi, diviene merce disponibile.
Il valore sostituisce la dignità e l’avere rimpiazza l’essere, secondo una delle dinamiche già sottolineate a suo tempo da Erich Fromm in relazione alla società mercantile.
Bene dice allora il filosofo contemporaneo Peter Sloterdijk quando asserisce che il grigio è la tonalità per eccellenza del nostro tempo della miseria, anche se nascosta dietro l’onnipresente arcobaleno che cerca in qualche modo di giustificarla e nasconde l’onnipresente mercificazione integrale.
Il modello dell’influencer tende allora a farsi paradigma universale, quasi come se divenisse l’emblema della società stessa e dei suoi miserrimi abitatori. E così già da sempre la politica si è adattata nel quadro del nuovo spirito del turbocapitalismo ed è divenuta una politica per influencer, assumendo il triste stile di questi e della loro permanente messa in mostra volta, come ricordato, alla valorizzazione.
E nel caso specifico al potenziamento illimitato dei consensi.
Guy Debord, già citato, scriveva a suo tempo che la società dello spettacolo è quella nei cui spazi il capitale raggiunge un tale livello di potenza da farsi spettacolo. E lo spettacolo, diceva ancora Guy Debord, non è se non la società capitalistica mediata dalla fantasmagoria delle immagini. Ancora una volta è confermato peraltro uno dei tratti più emblematici della civiltà del finance-capitalismo, civiltà sulla quale aveva a suo tempo portato l’attenzione Luciano Gallino in prospettiva sociologica.
La società del finance-capitalismo è quella sempre più disancorata dall’economia reale e del lavoro, sempre più libera dall’economia dei servizi e della capacità lavorativa. E’ un’economia in cui, per dirla con Marx, il denaro genera denaro, sempre più libero dai processi lavorativi, sempre più dedito alla crescita illimitata. Ebbene, anche il paradigma degli influencer configura uno scenario di questo tipo, se si considera il fatto che la massima parte di questi influencer, oltretutto, non ha mai lavorato un giorno della propria vita e nemmeno sa cosa sia propriamente quell’attività antropogenica per eccellenza che è il lavoro, attività con la quale l’uomo acquista coscienza di sé modificando l’oggetto che gli sta di fronte.
Ebbene, anche da questo punto di vista, l’influencer incarna perfettamente il misero tempo di cui siamo abitatori, quello che Hölderlin chiamava “dürftiger Zeit“: il tempo della miseria.
Radioattività – Lampi del pensiero quotidiano con Diego Fusaro