Sembra quasi, a leggere i giornali e ad ascoltare le cifre, che l’Italia vada a gonfie vele sull’occupazione.
In realtà a dicembre abbiamo avuto un modesto incremento, trainato soprattutto da un piccolo aumento nei lavoratori maschi e dai contratti di tipo precario. Sono stati registrati mille nuovi occupati circa, portando il totale a 23.754 unità. “Un record”, viene definito da qualcuno.
In questa litania, o meglio in questa retorica del governo, è incoraggiante parlare di una diminuzione della disoccupazione, di 50.000 disoccupati in meno rispetto al mese precedente, di un aumento degli occupati di 456.000 di unità, di un tasso che raggiunge il minimo dal 2009 fermandosi al 7,2%.
Il problema è che questi dati sono semplicemente da interpretare, da capire, perché non dicono la verità.
L’aumento dell’occupazione è avvenuto soprattutto grazie a lavoratori autonomi e a tempo determinato e quindi solleva delle questioni che vanno al di là dei dati statistici superficiali. Perché? Perché mascherano una realtà più complessa, cioè l’aumento dei precari, l’aumento degli inattivi, di coloro che non cercano nemmeno più il posto di lavoro perché tanto hanno capito che non c’è nessuna speranza, insieme a un problema di povertà e part-time involontario, non volontario.
A questo si aggiunge poi la caduta dei salari, che è in caduta libera. E quindi, soprattutto rispetto al fenomeno inflattivo, chi ha degli stipendi ha pagato in questi anni uno scotto abbastanza elevato, per non dire in taluni casi molto elevato.
Quindi c’è un po’ di amarezza nel leggere questi dati trionfalistici. Perché? Di che tipo di occupazione stiamo parlando? Di che apice?
Di che prezzo stiamo pagando? La qualità del lavoro va anche interpretata, la precarietà del lavoro va analizzata.
Bisogna andare oltre le statistiche di superficie ed andare a vedere il vero tipo di mercato del lavoro che stiamo vivendo, dando, come dire, un impiego dignitoso e sostenibile per tutti. Perché se noi ci nascondiamo dietro il dito di dire che abbiamo più occupati, segnando i contratti a termine, le persone che lavorano poche ore la settimana, i precari, e nascondiamo invece i dati di tutti gli inattivi, di tutti coloro che non cercano più un lavoro perché disperati e sanno di non avere possibilità, il problema del reinserimento dei posti di lavoro delle persone di maggior età e via discorrendo – e quindi esaminiamo il vero mercato del lavoro in Italia e a questo aggiungiamo un confronto con la capacità di salario reale che avevamo ai tempi della tanta vituperata liretta e le consideriamo rispetto al tanto osannato eurone – allora forse qualcuno dovrebbe fare girare qualche neurone in più.
Malvezzi Quotidiani – L’economia umanistica spiegata bene con Valerio Malvezzi