La differenza, rispetto agli altri, fu che divenne già in vita un paradigma. Ci sentiremmo di sinterizzare così la grandezza di Dante: oltre le esegesi, le celebrazioni, le declinazioni dei suoi capolavori sia in chiave popolare che elitaria; sia che lo declami Benigni, sia che lo si riascolti nei toni più gravi di Albertazzi.
Ora che ci riflettiamo, nemmeno la pedanteria di certi studi liceali, o di certi insegnanti, è riuscita a nuocergli: continua a parlare al cuore dell’uomo, quando quest’ultimo resta incantato contemplando le sue descrizioni, o quando sente le fitte dello stesso peccato per cui qualche anima, in qualche cerchio avvolto dal buio e dalle grida, continua a dibattersi, incerta nell’individuazione del confine tra debolezza e pentimento. Perché ha dato voce al giusto come al ladro, all’adultero e alla santa; con solennità differente ma equanime nell’attribuzione dell’importanza.
Vissuto in un’epoca in cui non era contemplabile supporre un Dio clemente, e meno che mai tollerante, ha risarcito l’uomo prima ancora dell’Umanesimo: raccontandolo nell’asperità delle sue bassezze, esaltandone le attitudini più nobili; raccontandone il bene di cui è inconsapevolmente capace. Per questo a Beatrice bastava salutare qualcuno.
Persino quando ha salutato il mondo, lo ha fatto in un modo fin troppo presente per noi, oggi: portandosi appresso, di ritorno da Venezia, fin quasi a Ravenna, l’imprevisto contagio di un’epidemia.
Continuiamo a perdonare Francesca, assieme a Paolo che tace, per questo motivo. E anche quando non avevamo voglia di studiarlo, due cenni di parafrasi ci catturavano l’attenzione, ci spalancavano il cuore: in un modo o nell’altro, in questo o in quel verso, stava parlando proprio per noi. Ecco perché ci parla ancora.
Paolo Marcacci