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Attualità

Afghanistan, il paradosso: le donne che si sentono libere sono dietro le sbarre

Ancora oggi, nel 2024, alle donne non vengono riconosciuti vari diritti fondamentali. In alcuni Paesi nascere femmina è considerata una colpa. In Afghanistan le donne non possono vestirsi come vogliono, non hanno il diritto di frequentare la scuola, lavorare e spostarsi da sole oltre un raggio di 72 km. Qui le donne sono considerate naquis-e-aql ovvero “stupide alla nascita”. Le famiglie festeggiano con gioia la nascita di un maschio, non certo quella della femmina: il termine ‘donna‘ è considerato un insulto. Le donne non si sentono libere e protette nel loro Paese, ma in gabbia anche tra le mura della loro casa.
La fotografa Kiana Hayeri riuscì a trovare un luogo dove queste donne erano libere di vivere come volevano e senza costrizioni. Paradossalmente, anche qui le donne rimanevano in gabbia, ma le sbarre erano materiali e non ideologiche. Il luogo dove queste ragazze, madri e figlie, trovarono la pace, è il carcere di Herat, all’interno del quale trovarono speranza e salvezza.

Può una donna sentirsi più libera dentro a un carcere?

A quanto pare sì, se hanno sempre vissuto in un Paese che non è nato e fatto per sviluppare l’emancipazione delle donne. Per noi occidentali trovare la libertà all’interno di un carcere può sembrare paradossale ma per chi è nato e cresciuto in Afghanistan non lo è. Soprattutto, se si tratta di un individuo di sesso femminile. Il carcere di Herat è un penitenziario femminile che nasce negli anni ’90 nel cuore dell’Afghanistan. All’interno del carcere si trovano 150 donne e 90 bambini. Il reato più comune è quello della prostituzione, che include l’adulterio e aver fatto sesso prima del matrimonio. Ciò che fa riflettere e al tempo stesso stranire, è che quelle giovani donne erano felici. Negli scatti di Hayeri le detenute bevevano il thè, giocavano a pallavolo in cortile e frequentavano corsi di cosmetica. “Dietro le sbarre hanno trovato una parvenza di pace, un luogo meno violento in cui vivevano” ha detto la fotografa. Sono parole che ci fanno riflettere, profonde e al tempo stesso sconcertanti. Le donne ritratte da Hayeri non indossavano il burqua, non erano relegate in un angolo, ma anzi correvano libere nel cortile più unite che mai.

Un tempo sospeso

Tra quelle mura le detenute si sentivano più protette che a casa loro. Le foto di Hayeri sono state esposte alla Biennale della fotografia femminile di Mantova per la mostra dal titolo: “Where prison is a kind of freedom”. La vita a Herat, sembra adesso una realtà più lontana che mai. Infatti dal 2021 con il ritorno dei talebani, la vita all’interno del carcere è profondamente cambiata, la scrittrice lo racconta attraverso la testimonianza di due ex detenute nel suo libro uscito quest’anno: “When Cages Fly”. Il regime dei talebani ha riportato la violenza e ha tolto ancora più diritti alle donne, ma le foto di Hayeri sono la prova che l’unione tra le donne fa la forza. Il ricordo della vita dentro Herat, ci lascia il messaggio, ovvero che non si può e non si deve mai lasciare spazio alla speranza.

Francesca d'Amato

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