Così cita lo slogan affisso all’esterno di varie università e diffuso su tutti i social media nelle ultime ore: All eyes on Rafah. L’interpretazione non lascia spazio alla fantasia. Una presa di posizione: un grido al ‘cessate il fuoco’, di nuovo, in modo diverso.
L’area umanitaria a sud di Gaza, vicino a Rafah, nei giorni scorsi è stata colpita da un attacco aereo da parte dell’esercito israeliano. La Mezzaluna Rossa Palestinese annuncia tramite un post su X che “Gli equipaggi delle ambulanze della Mezzaluna Rossa Palestinese stanno trasportando un gran numero di martiri e feriti dopo che l’occupazione (israeliana) ha preso di mira le tende degli sfollati vicino al quartier generale delle Nazioni Unite a nord-ovest di Rafah”. La città era l’unica rimasta indenne nella zona di Gaza dal 7 ottobre.
“L’attacco è stato effettuato contro terroristi, che sono un bersaglio in conformità con il diritto internazionale, utilizzando munizioni di precisione e sulla base di informazioni di intelligence che indicano l’uso dell’area da parte di terroristi di Hamas”, così ha dichiarato l’IDF (impegnato da tempo in un’operazione militare specifica nel distruggere gli ultimi battaglioni di Hamas).
L’incendio è divampato arrivando al centro per rifugiati di Barkasat, gestito dall’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi). Si contano più di 40 quaranta persone rimaste uccise e altrettante ferite.
Intanto, dopo 4 mesi Hamas è tornato ad agire dimostrando di poter colpire ancora: nella zona centrale di Israele si contano almeno 7 razzi lanciati dalla stessa Rafah (tutti intercettati): allarmi su Raanana, Herzliyna, Natanyaa e centro di Tel Aviv. Gli attacchi sono stati rivendicati dalle Brigate Qassam, come a voler indicare di essere ancora pronti per la sfida, dove la resa non è mai un opzione: “I bombardamenti di Tel Aviv sono in risposta ai massacri sionisti contro i civili”.
Il declino è avvenuto quasi in contemporanea al momento stesso in cui l’Egitto ha riaperto il valico di Rafah (dopo un colloquio tra il presidente Joe Biden e quello egiziano Sisi) per far arrivare camion di aiuti umanitari (ispezionati da Israele) nella Striscia. Ne sono passati 200, a bordo di essi oltre agli aiuti umanitari presenti anche quattro autocisterne di carburante. Alla vigilia della ripartenza dei colloqui per il rilascio degli ostaggi (previsto nella giornata di domani al Cairo) si rischia che il passaggio non avvenga.
Nel panorama internazionale Israele risulta sempre più solo. Di fronte alla continua offensiva verso Gaza Netanyahu non sembra voler retrocedere di un solo passo, chi storicamente ha sostenuto nascita e consolidamento dello Stato ebraico oggi si guarda bene dall’essere associato alle atrocità perpetrate dal premier israeliano, nominato anche ‘Bibi’. Parliamo in special modo dell’Onu, della Corte penale internazionale, ma anche della Spagna, Irlanda e Norvegia intenzionate a riconoscere ad oggi lo Stato della Palestina. In tal senso il procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aja ha richiesto un mandato di arresto sia per Netanyahu (e Yoav Gallant, il suo ministro della Difesa) che per Yahya Sinwar (leader di Hamas) per “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”.
Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina punta in primis a un approccio coordinato tra Stati membri dell’UE e non.
Non solo, arriva perfino una richiesta dal Regno Unito da parte del primo ministro degli esteri David Cameron che dichiara di aver “urgentemente bisogno di un accordo per liberare gli ostaggi e far entrare gli aiuti, con una pausa nel conflitto per consentire di lavorare a un cessate il fuoco sostenibile a lungo termine” chiedendo trasparenza, rapidità e concretezza nell’indagine dello Stato ebraico.
Su quanto successo a Rafah, la presidenza palestinese ha diffuso tramite comunicato che “Le forze di occupazione israeliano hanno compiuto un massacro atroce in violazione di tutte le risoluzioni internazionali”.