Abbiamo raggiunto telefonicamente Paolo Velonà, uno degli autori di “Utopia e distopia, l’invisibile confine”, Ciampi Editore
Utopia e distopia sono termini di cui sentiamo spesso parlare ma cosa significano in realtà?
Sono due parole di origine greca. Per utopia si intende letteralmente un “luogo inesistente” e dunque mitico e ideale. Con distopia invece si indica l’esatto opposto. Distopica, cioè, è una società che ha tutte le caratteristiche dell’incubo; un mondo in cui il potere ha assunto delle forme sempre più oppressive e la libertà dell’uomo si è ridotta fino a sparire.
Perché allora nel vostro testo si parla di “invisibile confine”?
Il confine tra utopia e distopia è così sottile da essere letteralmente invisibile. Le grandi utopie che ci ha tramandato la tradizione filosofica come la Repubblica di Platone, ad esempio, o la Città del sole di Campanella sono a tutti gli effetti delle distopie. Leggendo questi testi si resta letteralmente sconcertati come quando Platone teorizza la necessità di uccidere i bambini malati. Viceversa, alcune celebri distopie come 1984 di Orwell o Il mondo nuovo di Huxley sono in realtà molto più problematiche di quanto non si creda. Nell’immaginario collettivo i loro romanzi sono critiche spietate alla società contemporanea, eppure quando scrivevano sui giornali Orwell e soprattutto Huxley si trasformavano in alfieri di quello stesso “progresso” criticato nei loro libri. Basti pensare, solo per fare un esempio, alle posizioni di Huxley sull’eugenetica.
Le utopie e le distopie vivono solo nei libri?
Magari si trattasse solo di letteratura. La storia ha conosciuto diversi progetti utopistici e tutti immancabilmente si sono risolti in distopie. Pensiamo al giacobinismo o al comunismo, ma anche al positivismo o al liberismo. C’è una cosa in fondo che accomuna tutte le utopie. Per capirlo meglio dobbiamo partire da una parola greca: “topos” e cioè “luogo”. Spesso confondiamo luogo con spazio, ma sono due concetti molto diversi. Un “luogo” ha dei confini abbastanza precisi, una disposizione interna e delle regole con cui è organizzato. Se gli uomini hanno sottratto alla natura un luogo lo hanno fatto con uno scopo e per questo se lo tramandano gli uni con gli altri, modificandolo nel tempo. La piazza è un luogo, come la chiesa o la fabbrica o la scuola o il cinematografo. In certi momenti storici uno di questi luoghi comincia ad allargarsi occupando prepotentemente tutti gli altri. Così nascono le utopie. L’utopia comunista cercò di trasformare il mondo intero in una fabbrica, la rivoluzione francese vedeva ovunque piazze adatte ai plebisciti e ai pubblici processi, quanto ai liberisti per loro esisteva ed esiste solamente il mercato.
L’epoca delle grandi utopie è forse finita?
Purtroppo no, possiamo dire anzi che in anni recenti abbiamo visto diffondersi un’utopia dal volto davvero tragico. In nome di un mondo sicuro, il potere ha cominciato a distinguere i sani dai malati, attribuendo diritti in base al corretto comportamento medico sanitario. La prevenzione si è sostituita alla morale e con la scusa della sicurezza è stato possibile giustificare qualsiasi scelta politica. La scienza che da sempre era stato il regno del dibattito, del procedere con prudenza, della verificabilità e della falsificabilità si è trasformata nella fonte di un potere necessitante, apodittico, che emette sentenze più incontestabili della Torah. Il risultato, come in ogni utopia che si rispetti, è stato l’estendersi di un unico luogo – in questo caso l’ospedale – all’intera realtà. Scuole, teatri, palestre, strade, piazze, mercati, sono stati riorganizzati con criterio ospedaliero, snaturandosi completamente. Finito lo Stato di emergenza siamo tornati alla cosiddetta normalità; l’utopia della Sicurezza, però, è viva più che mai e con forme meno aggressive ma più lungimiranti aggredisce sistematicamente lo spazio che ci circonda, cercando di trasformarlo in un unico luogo dal volto orribile.
L’intervista a cura di Paolo Marcacci