Come sapete, Mélenchon è risultata la vera e propria sorpresa delle recenti elezioni francesi, ottenendo un risultato davvero insperato, che lo ha posto al di sopra dello stesso Macron, vate neoliberale dell’ordine globale atlantista. Vi è un passaggio, tratto da un recente discorso di Mélenchon, che merita di essere eccellentemente commentato.
Così ha detto Mélenchon: “Quella di dividere il popolo è una strategia vecchia quanto il potere, nella quale non dobbiamo e non possiamo cadere. Perché il popolo non è una razza, un’etnia, una lingua, un colore della pelle. Il popolo nasce da un contratto tra donne e uomini liberi”.
Ora, di Mélenchon condividiamo l’opposizione al liberismo e all’atlantismo, nonché il pieno supporto al popolo palestinese. Ottima ci è parsa la sua battaglia contro la riforma pensionistica ultraliberista del prodotto in vitro dei Rotschild, Macron. E ottima altresì ci è parsa la recente dichiarazione di Mélenchon secondo cui bisogna riconoscere il prima possibile lo Stato palestinese.
Ma torniamo al discorso di Mélenchon poc’anzi menzionato. Egli ha indubbiamente ragione nell’evidenziare che il potere neoliberale si basa sulla vecchia strategia della divisione orizzontale degli ultimi, dividere per comandare, in maniera tale da garantire il dominio dei primi grazie alla frammentazione degli ultimi. Non è certo un segreto inconfessabile che l’ordine del capitalismo si fondi sull’orizzontalizzazione del conflitto e più precisamente, sulla divisione di coloro i quali tutto l’interesse avrebbero a stare uniti per contrastare l’ordine dominante.
Tutto vero, peccato che lo stesso Mélenchon sia più volte, purtroppo, ricaduto egli stesso in questa strategia care al potere. Ad esempio quando ha aderito al fronte della desistenza e dell’antifascismo in assenza di fascismo e dunque ha contribuito a spaccare il blocco unitario del basso contro l’alto, del popolo contro il patriziato cosmopolita che si riferisce a Macron. Bisognerebbe ricordare a Mélenchon che lui stesso ha sostenuto Macron in funzione anti-Le Pen e dunque ha rinsaldato, per così dire, l’ordine dominante neoliberale con la scusa dell’antifascismo in assenza di fascismo.
A ogni modo, bene fa Mélenchon a riferirsi al popolo come protagonista della democrazia e come grande rimosso dell’ordine neoliberale. Giustissimo il richiamo al popolo di Mélenchon. Bisognerebbe però pacatamente spiegare a Mélenchon che, come bene sapeva Hegel, l’idea del popolo come contratto, così l’ha proposta Melenchon, è sic et simpliciter una aberrazione, figlia dell’ordine capitalistico e della sua mania di ridurre ogni legame al contratto mercantile.
L’erramento del pensare il popolo, e magari anche lo Stato, come esito di un contratto è duplice. Per un verso si muove da un’antropologia di tipo individualistico, che pensa che in origine vi siano solo atomi sociali già formati, che poi si aggregano in maniera pattizia, il contratto appunto. In tal guisa il popolo e lo Stato diventano qualcosa di derivato e, per così dire, un quid secondario rispetto agli individui intesi come soggetti autonomi e prioritari.
È questo l’erramento della modernità contrattualistica già evidenziato a suo tempo da Hegel. In secondo luogo, come già ricordavo, parlando del popolo come frutto di un contratto, si assume il modello del contratto privato come paradigma universale, alla cui luce leggere anche la categoria del popolo e magari anche quella dello Stato, come se appunto fossero l’esito di contratti privati tra individui possessori. Contrariamente a quel che sembra pensare Mélenchon, il popolo è invece l’unità comunitaria vivente di esseri umani.
Esseri umani che parlano la medesima lingua, condividono una cultura e un mondo valoriale, sono uniti da una identità. Il popolo dunque non è l’esito di un contratto, con buona pace di Mélenchon, è invece una realtà originaria, a tal punto che si può bene utilizzare l’espressione, cara a Hegel, di spirito del popolo: volksgeist. Questo è il popolo, un’unità socio-economica ma anche culturale e identitaria.
Radioattività – Lampi del Pensiero Quotidiano con Diego Fusaro