…restano gli strascichi delle sensazioni provate durante lo stillicidio dei processi, delle ricostruzioni, dei tentativi di illuminare gli angoli oscuri delle vicende; l’istinto di immedesimarsi nello strazio di chi assiste alla doppia morte dei figli: una prima volta perché in modo infame qualcuno glieli porta via; una seconda perché, alla fine di un percorso in cui troppe volte chi l’ha già vissuto è chiamato a rivivere il proprio dolore, agli abbracci e ai sospiri di sollievo di chi viene assolto corrisponde il niente che si ritrova nei pugni stretti chi aveva invocato giustizia fino in fondo, con la beffa delle spese processuali da affrontare. Non vi sembri, quest’ultimo, un particolare prosaico: è, al contrario, una delle testimonianze (come suona ambiguo il termine) di quanto divergente sia l’iter della burocrazia processuale rispetto al percorso che si aspettavano di compiere tutti quelli che davanti alla memoria degli affetti strappati pretendevano di deporre perlomeno la dignità di una colpevolezza accertata.
Ci hanno insegnato che le sentenze si rispettano, perché è uno dei dogmi del rapporto tra la società civile e la sfera del diritto; il fatto è che ci sono occasioni in cui ciò che percepiamo come giustizia sembra procedere in direzione contraria rispetto alle sentenze che emergono dai gradi di giudizio.
Il delitto di Serena Mollicone, la ricostruzione della vicenda, le figure che sono entrate a farne parte (basti pensare al carabiniere Santino Tuzi e al suo suicidio) fanno rabbrividire, soprattutto per la sensazione che lasciano di come una ragazza come altre centomila ce ne sarebbero potute essere al suo posto, abbia pagato con la vita l’essersi trovata al posto sbagliato in una serie di momenti sbagliati.
Si sommano una serie di dolori che nessuno risarcirà, in questa storia: oltre alla morte violenta di Serena Mollicone, la consumazione della vita di suo padre Guglielmo alla ricerca di una verità che a questo punto non avrebbe ottenuto nemmeno se fosse ancora vivo; la percezione nella comunità di Arce e di conseguenza in tutto il paese dell’impunità di certi ambienti, soprattutto in provincia; le probabili connivenze tra i piccoli ma eterni poteri locali che fa precipitare il Paese nel diciannovesimo secolo, più che nel ventesimo.
È una storia molto italiana, perché nient’affatto isolata, quella di Serena Mollicone: tanti altri casi potremmo citare in cui, una volta spentisi i riflettori sulla vicenda e sul processo, è rimasta la colpa, ossia il delitto, ma mancherà per sempre il colpevole. Come per Marta Russo, come per tanti altri individui trovatisi anche loro nei posti e nei momenti sbagliati.
Finisce sempre più spesso così: con il bisbiglio della gente comune che si immedesima nello stato d’animo di chi pretendeva perlomeno di sapere e con i legali difensori che si abbracciano. Legittimamente, si abbracciano; però a noi certe immagini faranno sempre tornare un mente il verso di una canzone di Francesco De Gregori, “Il bandito e il campione”: – Cercavi giustizia, ma trovasti la legge -.
Paolo Marcacci