Il CEO e fondatore russo di Telegram Pavel Durov è stato arrestato sabato scorso dalle autorità francesi.
L’accusa è quella di non aver censurato chi, sulla piattaforma social, commette reati come terrorismo, frode, cyberbullismo, spaccio di stupefacenti e pedopornografia. Reati commessi dagli utenti, e non da Durov in prima persona. Per l’accusa però, il patron li avrebbe facilitati. Pavel Durov diceva all’ex giornalista di Fox News, Tucker Carlson, qualche tempo fa che Telegram collabora con le autorità. Ma fino a un certo limite.
“Abbiamo ricevuto molte richieste. Alcune erano legittime. Se c’era un gruppo di persone che promuoveva la violenza, c’era un’attività terroristica che diffondeva la violenza in alcune parti del mondo, pubblicando cose che qualsiasi essere umano decente non avrebbe mai approvato, noi li abbiamo aiutati. Ma in altri casi, abbiamo ritenuto che si trattasse di oltrepassare un limite, e che non sarebbe stato in linea con i nostri valori di libertà di parola e di protezione della corrispondenza privata delle persone“. La soluzione adottata da Telegram e legali a tali richieste? “Li ignoravamo“. Stessa tattica adottata, dice l’imprenditore russo, con gli Stati Uniti.
“Dopo gli eventi del 6 gennaio abbiamo ricevuto una lettera da, credo, membri del Congresso della parte democratica. Ci hanno chiesto di condividere tutti i dati in nostro possesso in relazione a ciò che hanno definito “assalto” – di Capitol Hill, ndr. Abbiamo consultato i nostri avvocati e ci hanno detto che era meglio ignorarla. Ma la lettera sembrava molto seria. E diceva: <<Se non soddisfate questa richiesta, violerete la Costituzione degli Stati Uniti>>, o qualcosa del genere. Probabilmente volevano i dati delle persone che stavano manifestando a Washington o ovunque stessero manifestando. La cosa divertente è che due settimane dopo quella lettera, ne abbiamo ricevuta un’altra dalla parte repubblicana del Congresso. Diceva che se avessimo fornito i dati richiesti in precedenza dall’altra lettera, avremmo violato la Costituzione degli Stati Uniti“.
I problemi in Russia nel 2014
Già in passato Pavel Durov si era trovato sulla scrivania una richiesta identica: quella della Russia di Putin di fornire, nel lontano 2014, i dati dei manifestanti ucraini alle agenzie di sicurezza russe e di bloccare la pagina VK di Navalny. Durov, all’epoca amministratore delegato di VK, fu licenziato. Poco dopo abbandonò la Russia. Un fatto riportato al tempo dai media occidentali di tutto il mondo, dove la critica era nei confronti della legge anti terrorismo del Cremlino, definita al tempo una “stretta su Internet”. Lì la minaccia russa era di bloccare Gmail e Skype. Si chiedeva inoltre l’obbligo di verificare le notizie online per scovare reati come la pedopornografia e lo spaccio di droga, con lo scopo ultimo di salvaguardare la navigazione dei minori. Su questo il mainstream parlò di “raggio di discrezionalità”, ovvero di limite e di un dubbio specifico: che Putin volesse in realtà approfittare della legge, e della battaglia a quei reati, per censurare?
A distanza di dieci anni, l’ipotesi di chiudere un social perché poco avvezzo alla “moderazione” spunta in Occidente.
Ha affermato il segretario del Partito Democratico Europeo Sandro Gozi qualche giorno fa che “se Elon Musk non si adegua alle regole europee sui servizi digitali, la Commissione Ue chiederà agli operatori continentali di bloccare X o, nel caso più estremo, imporrà di smantellare totalmente la piattaforma nel territorio dell’Unione“. Oggi, a distanza di dieci anni, il sospetto è che Durov non abbia cambiato idea sulla libertà di parola.
L’Occidente sì.