Alì-Foreman: la Rissa nella Giungla che scrisse la Storia

PT 1 | Antefatto

PT 2 | Lo scontro

PT 3 | Pungi come un’ape

La vicenda umana e sportiva dei confronti tra Ali e Joe Frazier, che per più di quaranta riprese si sono affrontati sul ring, arrivando a “La cosa più vicina alla morte”, come dice Ali al termine del match di Manila, o con dichiarazioni d’intenti come “Voglio strappargli il cuore” come dice Frazier prima del match, meritava di essere narrata senza alcuna interruzione; vera e propria trilogia, romanzesca come solo le storie autentiche e irripetibili sanno essere, da raccontare senza soluzione di continuità, come è stato fatto nel capitolo precedente.

La cronologia vera e propria, racconta anche un’altra vicenda, tra il secondo e il terzo match, che accende un’altra stella nel cielo leggendario di Ali e, per tutti gli anni che avranno da vivere lui e “Smokin” Joe, regala a entrambi un terzo fratello: fratello nel dolore, nella lotta per la sopravvivenza di un orgoglio che prescinde dai milioni di dollari, nei pugni che restano impressi a vita, da qualche parte tra lo stomaco e la fronte di chi li riceve.

Non può che tornarci in mente la faccia di Don King, il suo ghigno a metà tra circense e demoniaco, la sua enorme capigliatura che sembra un grande ombrello rovesciato, o un grosso cespuglio tagliato ad arte all’interno del quale nascondere soldi, tanti, e segreti, ancora di più.

King è “soltanto” uno che ha in mano il giro delle scommesse a Cleveland, a metà degli anni Sessanta ed è totalmente estraneo al mondo della boxe. La seconda metà del decennio la trascorre in cella, in Ohio, incriminato per omicidio colposo.

Nel frattempo, ha conosciuto Ali, che gli viene presentato da Lloyd Price, interpete di alcuni dei brani rock che vanno per la maggiore nel decennio, come “Stagger Lee” e soprattutto “Personality”, composta nel 1959. Don King segue alla radio, insieme agli altri detenuti, il primo match tra Ali e Frazier nel 1971; nel 1974 è già tra i promotori del secondo match; un anno dopo è il gran cerimoniere del “Thrilla in Manila”. Questo passaggio storico, concentrato in pochi anni, offre la misura esatta non soltanto delle capacità imprenditoriali di King, ma anche e soprattutto della sua diabolica abilità nell’intessere rapporti finalizzati sempre e soltanto al proprio tornaconto, da raggiungere attraverso l’abilità di promoter che lo porta ad avvicinare personaggi sempre più importanti. Un incantatore di serpenti, che con il pugilato professionistico entra in ballo attraverso una serie di match di beneficenza (a uno prende parte anche Ali) e incontri di secondo piano, ma sempre mirando ai piani alti e senza mai perdere di vista Ali, il fascino che sa esercitare su scala mondiale, i guadagni enormi che moltiplica a ogni saltello. Chiunque venga a contatto con King, capisce in breve tempo che si tratta di un uomo che, non è solo un modo di dire, venderebbe anche la propria madre, se questo fosse un buon affare.

L’occasione per il grande, grandissimo salto comincia a materializzarsi a metà del 1974, quando nel frattempo nell’olimpo dei pesi massimi si è fatto largo un nuovo dio demolitore: George Foreman, texano di ventiquattro anni, medaglia d’oro all’Olimpiade messicana del 1968, che il 22 gennaio del 1973, a Kingston, in Giamaica, aveva sbriciolato l’orgoglio di Joe Frazier, atterrandolo a ripetizione (anche se Frazier si sarebbe rialzato all’infinito), togliendogli il titolo. 

Nell’estate del ’74 Foreman e il suo entourage cominciano a prendere in considerazione la possibilità di incontrare Muhammad Ali. Nel frattempo, Ali ha battuto Frazier a gennaio, nella rivincita al Madison Square Garden. L’ipotesi di un confronto Foreman – Ali per il titolo mondiale sembra però infrangersi addosso a un enorme scoglio: Herbert Muhammad chiede cinque milioni di dollari per far combattere il suo pugile; una somma spropositata, una pretesa senza precedenti. Quella richiesta così fuori dai canoni sembra in realtà celare un rifiuto ad affrontare Foreman o, in alternativa, tutti sarebbero autorizzati a prendere Herbert Muhammad per folle. Don King non lo fa, lui lo prende sul serio, precisando che una somma del genere si potrebbe ottenere, ma fuori dagli Stati Uniti. Per cinque milioni di dollari, Herbert Muhammad porterebbe Ali anche sulla luna, se fosse possibile impiantare un ring fra i crateri. Il luogo eletto per la sfida, dopo una fittissima rete di trattative e stanziamento di fondi, sarà Kinshasa, capitale dello Zaire, che poi diverrà Repubblica democratica del Congo. La più ricca sfida per il titolo mondiale dei pesi massimi nel cuore dell’Africa: forse i crateri lunari sarebbero stati uno scenario meno inconsueto. Come è stato possibile arrivare a una soluzione del genere? Diciamo che l’intuito quasi demoniaco di Don King per gli affari ha incontrato la necessità di un uomo e del suo governo di accendere i riflettori sul proprio paese per una causa che restituisca rispettabilità alla nazione. L’uomo è l’imperturbabile dittatore zairese Mobutu Sese Seko, ben disposto a stanziare dieci milioni di dollari per il Campione Foreman e per lo sfidante Ali, pur di darsi una ripulita agli occhi del pianeta. Il suo potere, sin dal suo insediamento filostatunitense e antisovietico per tutti gli anni della Guerra Fredda, è conosciuto per la ferocia e per la violenza con cui si sostiene e si alimenta. Il vero prodigio di Don king, del quale si dice che “è nero, pensa come un bianco ma ama solo il verde dei dollari”, è condurre trattative separate con Ali e Foreman, promettendo a entrambi cinque milioni di dollari nel momento in cui ancora non li ha trovati; di lì il colpo di genio, perché tale è, di esportare quello che probabilmente è l’incontro più celebre, se non più importante, dell’intera storia pugilistica, in una terra che è al tempo stesso “vergine”, per quanto riguarda un avvenimento di questa portata, e madre, in quanto l’Africa è il ritorno alle origini, almeno nella simbologia, per qualsiasi nero al mondo, anche per quelli che non vi metteranno mai piede. Proprio per questo, diviene da subito l’Africa di Ali, non quella di Foreman, dal momento stesso in cui viene siglato il contratto per l’incontro. Sono entrambi afroamericani, ma è l’unica cosa che abbiano in comune, per quanto riguarda la questione razziale e il modo di elaborarla. Per Ali, anche in funzione del battage in vista dell’incontro, combattere nel Continente nero vuol dire, simbolicamente, la chiusura del cerchio delle sue battaglie, oltre che l’ennesima scoperta, dopo tanti viaggi effettuati in precedenza in tanti stati africani, di quanta ignoranza e quanti luoghi comuni circolino sui loro abitanti. Lo colpisce molto che ci siano così tanti laureati: medici, architetti, avvocati. Si compiace in particolare del fatto che siano sempre più numerosi i piloti d’aereo e d’elicottero: quando era ragazzino, a Louisville, un nero poteva al massimo condurre un camion, o un autobus di linea.

Per George Foreman l’Africa è un posto come un altro dove difendere, da favorito, il suo titolo di Campione del mondo, solo con un ingaggio molto più alto della media: una cifra che, in tutte le loro carriere, non sono riusciti a guadagnare Joe Louis, Archie Moore, Rocky Marciano, solo per fare qualche nome.

Entrambi i pugili, per abituarsi alla calura e soprattutto all’annichilente tasso di umidità di Kinshasa, arrivano nella capitale con molte settimane di anticipo rispetto alla data dell’incontro, fissato per il 25 settembre 1975. Ali, in particolare, programma la partenza in modo da trascorrere l’intera estate in Africa e si presenta con un’autentica tribù: un entourage di trentacinque persone: ovviamente Angelo, Bundini, Il Dottor Pacheco, il fidato fotografo Howard Bingham, forse il suo più autentico amico, gli sparring partner tra i quali spicca un giovane promettente: Larry Holmes; ma anche parenti, amici, cosiddetti assistenti, membri a vario titolo dello staff. C’è persino un addetto agli “assaggi” del sudore di Ali al termine di ogni sessione di allenamento, per tenere sotto controllo il contenuto di sali. Tutto il clan alloggia presso una grande tenuta presidenziale nella località di N’Sele, a più di cinquanta chilometri dalla capitale. A parte gli allenamenti e le conferenze stampa, i due trascorrono in maniera molto diversa le loro giornate africane: Ali gira tra la gente, incontra ogni tipo di persone; si fa accompagnare anche nei quartieri più poveri o malfamati. Nelle gigantesche bidonville dove manca la luce elettrica e ovviamente non c’è l’ombra di un televisore, lui è comunque conosciuto e riconosciuto come se fosse uno di casa, con la differenza che è idolatrato e venerato al punto tale da far pensare che stia per combattere per loro, per gli africani, ancora prima che per lui. Non è soltanto una questione di fascinazione o di ascendente, quello Ali lo esercita in ogni luogo del mondo in cui si rechi; stavolta c’è di mezzo una vera e propria forma di appartenenza: gli abitanti di Kinshasa, come il resto degli africani, hanno riconosciuto in lui un vero “fratello”, uno che ogni volta che ha parlato per sé, automaticamente ha parlato anche per loro; ogni battaglia che ha condotto, l’ha condotta perché altri neri, in futuro, non dovessero più aver bisogno di lottare per rivendicare ciò che spetta loro. Questa è l’efficacia della sua capacità comunicativa e del talento che ha come promotore di se stesso e, almeno da questo punto di vista, schiaccia ogni avversario, ogni altro nero nello specifico, in quanto a empatia con intere popolazioni. Ecco perché l’antagonista di turno, ancorché nero, sarà sempre uno Zio Tom, anche quando non merita di essere definito tale, perché Joe Frazier, per esempio, non meritava quel soprannome, come abbiamo già illustrato.

George Foreman, che col tempo diverrà un uomo amabile e in grado di proferire battute e aforismi profondi e intelligenti, nell’epoca in cui si trova a preparare l’incontro con Ali è soltanto un ragazzone texano cui sono piovuti addosso una repentina fama e molti dollari; che sia nero diventa un dettaglio, perché ciò che si percepisce di lui è l’appartenenza allo stereotipo dell’americano benestante e disinteressato, che ama la Coca Cola, i popcorn e il baseball in tv. Su di lui, perlomeno all’epoca, è molto più facile cucire l’abito da Zio Tom e Ali non si lascia pregare: Frazier non ha mai rilasciato alcuna dichiarazione sulla questione razziale, non ha mai preso posizione in tal senso; per di più nel 1968, durante l’Olimpiade messicana in cui Tommy Smith e John Carlos decisero di alzare il pugno sul podio, lui accettò di salire a ricevere la medaglia sventolando la bandiera americana e Ali fa in modo di ricordarlo a ogni piè sospinto, appena la stampa accende la miccia della polemica.

Mai come in questa occasione la questione strettamente sportiva è infarcita da una miriade di questioni molto più grandi di essa, molto più profonde. Ancora una volta, Ali sta per trascinare sul ring una storia che dovrà essere elaborata dagli storici, dai sociologi, infine dai politici che in un modo o nell’altro tenteranno di strumentalizzarla.

Man mano che l’incontro si avvicina, si discute su quali potranno essere i suoi contenuti atletici e tattici, su cosa sia lecito aspettarsi dal Campione mondiale in ascesa inarrestabile, ossia Foreman, e dallo sfidante più celebre al mondo, ossia Ali, che la maggior parte degli esperti ritiene troppo maturo e soprattutto “consumato” dalle battaglie precedenti, per avere delle chance contro uno schiacciasassi come il gigante del Texas.

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