Secondo il New York Times, Kamala Harris sarebbe in vantaggio di addirittura tre punti su Donald Trump per quel che concerne naturalmente le elezioni presidenziali statunitensi ormai davvero vicinissime. Sappiamo bene, tuttavia, che i sondaggi non sempre sono affidabili e, d’altro canto, nel 2016 essi davano per vincente Hillary Clinton anche se poi le cose andarono in maniera decisamente diversa, dacché, come senz’altro ricorderete, a vincere fu Donald Trump. Sia quel che sia, non mi stanco di ripetere come poco cambierà in ogni caso con le elezioni statunitensi.
Che vinca Trump o che, peggio ancora, vinca Harris, vincerà comunque il banco neoliberale imperialista, del quale Kamala Harris è, con tutta evidenza, espressione coerente e non peraltro privilegiata dall’ordine dominante turbocapitalistico e dal clero giornalistico regolare di accompagnamento. Per parte sua, Donald Trump, il “codino biondo” che fa impazzire il mondo, figura come una anomalia del sistema neoliberale del quale comunque è parte. Trump deregolamentò la finanza nel 2017, si è schierato toto corde dalla parte di Israele…
Insomma, Trump è pur sempre parte dell’ordine dominante.
Detto altrimenti, la salvezza, se mai vi sarà, non giungerà sicuramente da Washington. Potrà giungere tutt’al più dal blocco dei paesi disallineati, che ormai si stanno sempre più coalizzando, uniti non da altro se non dall’esigenza di resistere all’imperialismo della civiltà dell’hamburger e alla sua squallida libido dominandi di matrice imperialistica.
In effetti si sta generando una vera e propria internazionale degli Stati resistenti alla civiltà del dollaro e al suo imperialismo.
Per quel che concerne la nostra Europa, sarebbe ora che si smettesse una buona volta di ostentare la propria subalternità all’imperialismo di Washington. Come sappiamo, il buon suddito europeo guarda alle elezioni americane sperandone la vittoria dell’imperatore buono, Traiano, e non di quello cattivo, Nerone. Ma mai mette in discussione la propria dipendenza integrale dall’impero. Ecco, proprio questa dipendenza totale andrebbe seriamente messa in discussione anzitutto a livello teorico, provando a immaginare un mondo multipolare sottratto al dominio della civiltà dell’hamburger e alla sua libido dominandi.
Fintanto che l’Europa rimarrà una colonia di Washington, costellata da basi militari statunitensi, non vi saranno speranze per i popoli europei, i quali saranno anzi condannati alla perpetua subalternità all’imperialismo a stelle e strisce. Subalternità che ormai sempre più limpidamente appare anche a livello teorico, dacché pare sotto ogni riguardo che gli europei abbiano introiettato la propria subalternità a Washington nell’atto stesso con cui, come ricordavo poc’anzi, guardano alle elezioni americane sperandone la vittoria dell’imperatore buono su quello cattivo. Proprio in questo modus operandi si dà effettivamente la subalternità totale dell’Europa rispetto agli Stati Uniti d’America. Diciamolo ancora più chiaramente, l’Unione Europea, che rappresenta il grado massimo della subalternità dell’Europa a Washington, non fa altro che proporre una narrazione tale per cui dobbiamo sperare nell’imperatore buono.
E’ quella che, parafrasando il mio maestro Costanzo Preve, definirò la “Trumpmania” di numerosi sedicenti antisistema nella forma di un vero e proprio wishful thinking, ossia di una subordinazione totale, di una interiorizzazione della collocazione nell’impero americano. Come a dire: vorremmo un imperatore buono e non cattivo. Sotto questo riguardo la Trumpmania è semplicemente una forma di interiorizzazione della subalternità, la forma di chi appunto preferisce un imperatore buono senza mai mettere in discussione il proprio ruolo di suddito dell’impero. Per questo dobbiamo smetterla di sperare nella salvezza da Washington e guardare a quella parte del mondo che si sta organizzando per resistere all’imperialismo della civiltà del dollaro.
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