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Gigi Riva, oggi e sempre

Sapeva a malapena, lui nato il 7 novembre di ottant’anni fa dalle parti di Varese, a Leggiuno, dove fosse la Sardegna, prima di arrivare al Cagliari. Comprensible anche che non volesse andarci, che per un ragazzo della provincia lombarda negli anni Sessanta era un po’ come essere costretti ad atterrare su Marte. Soltanto Fabrizio De André ha amato la Sardegna quanto Gigirriva, tra quelli che non ne furono figli in origine ma vollero esserne sposi fino alla fine.

Otto sillabe da pronunciare tutte assieme, senza soluzione di continuità, come i più nobili tra i versi poetici. Gigirriva, tutto insieme senza riprendere fiato, con una erre in più che il vento dell’Isola gli soffiava addosso. Della sua isola, ché esistono i posti dove gli uomini nascono e quelli dove sarebbero voluti nascere, che è un po’ come dire che la vera madre è quella che ti cresce, non quella che ti ha partorito e basta.

Quando gli Agnelli o i Moratti, pur di convincerlo a suon di zeri, mettevano sul piatto della bilancia anche il fatto che si sarebbe riavvicinato a casa, non avevano ancora capito che una casa Gigi Riva l’aveva non solo trovata, ma anche riconosciuta; così come la gente sarda, che la confidenza la stringe in un imbuto dal quale gocciola a stento, aveva subito capito che quel suo semidio dell’area di rigore stava già diventando un fratello, mentre per ogni assegno con la cifra da scrivere lui comprendeva una volta di più che non avrebbe mai messo all’asta il loro rispetto.

Un’isola è un’isola solo se la guardi dal mare; Gigi Riva la traversata del ritorno non l’ha mai voluta compiere, trattenendo un composto accento lombardo sotto un cielo azzurro come l’estate del 1970, di nuvole bianche striate dal vento che tende le bandierine del calcio d’angolo. La spuma delle onde, tutt’attorno a quella specie di rettangolo frastagliato che è la sagoma della Sardegna, continuerà a restituire il fragore delle tante esultanze strappate alla nebbia di Torino o di Milano, col boato trattenuto dentro le conchiglie alle quali accosteranno l’orecchio i nipoti che dai nonni continueranno a farsi raccontare la favola di uno scudetto impensabile.

Resta sulla terraferma il dolore silenzioso di un popolo rimasto orfano, che continuerà a chiedere al vento dov’è che vanno a dormire gli eroi.

Paolo Marcacci

Paolo Marcacci

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