Ma quale trionfo femminista: l’Occidente celebra la donna iraniana senza vestiti per un altro motivo

Sta facendo molto discutere, soprattutto in rete ma non solo, l’immagine della studentessa iraniana che si spoglia e passeggia in intimo tra donne coperte integralmente, come è consuetudine presso il popolo iraniano. L’immagine viene ora presentata come il trionfo della protesta femminile in nome della propria emancipazione nel mondo islamico. Si tratta, come subito chiarirò, dell’ennesima prestazione propagandistica dell’Occidente, o meglio dell’Uccidente liberal-atlantista, il quale da tempo sogna una velvet revolution, o rivoluzione colorata che dir si voglia, atta a rovesciare il governo iraniano e a trasformare l’antica e nobile Persia, che stava sullo stesso piano della Grecia classica, in una dépendance della civiltà dell’hamburger.

Si potranno muovere tutte le critiche che si vorranno all’ordine teocratico iraniano, ma deve essere un punto fermo che l’emancipazione del popolo persiano spetta soltanto a esso, e non può certo essere esportata con missili democratici, imperialismo etico e bombe intelligenti, secondo il classico, e squallido, modus operandi dell’imperialismo di Washington. E ciò secondo un macabro copione che abbiamo già visto molteplici volte realizzarsi in questi anni, copione al quale si attagliano perfettamente le parole dell’antico Tacito: “Fanno il deserto e lo chiamano pace”.

Secondo la narrativa occidentale, o meglio, uccidentale, l’emancipazione della donna coinciderebbe con il suo passaggio dal velo islamico al corpo ignudo, dal burqa alla minigonna. In sostanza, da una condizione di sfruttamento della donna a una condizione diversa ma ugualmente orientata a sfruttare la donna. Nel regno reificato del capitale, come già scriveva Antonio Gramsci nei quaderni del carcere, la donna non è affatto emancipata, ma viene anzi considerata e trattata come un “mammifero di lusso”, sono parole di Gramsci.
Un mammifero di lusso che, aggiungiamo noi, deve essere sempre in vista e senza indumenti, disponibile per il godimento come unico orizzonte di senso della civiltà anomica e deregolamentata odierna.

Ci permettiamo allora di sottolineare che la donna, che certo non è emancipata nel mondo iraniano, non lo è neppure in quello occidentale. Basta anche solo considerare fugacemente la questione salariale, prendendo coscienza del fatto che, a oggi, le donne sono retribuite in occidente con salari decisamente più bassi rispetto agli uomini. Più in generale, basta prendere coscienza delle condizioni sociali e del lavoro delle donne per essere consapevoli di quanto non siano emancipate neppure nel sedicente, libero e democratico Occidente.

Oltretutto, come non ci stanchiamo di ribadire ad nauseam, il conflitto non deve essere inteso come guerra tra maschi e femmine, come vorrebbe far credere la raison neoliberale, avente come sempre lo scopo di frammentare il conflitto di classe e proiettarlo nell’orizzontalità degli scontri interni alla medesima classe, quella dominata. Banalmente, dai tempi di Cleopatra a quelli odierni, una donna delle classi possidenti ha più potere di un uomo delle classi popolari. E ciò vale dai tempi di Cleopatra fino ai tempi di Ursula von der Leyen.

Per questo, giova ribadirlo, il conflitto di classe non è tra maschi e femmine, ma tra sfruttati e sfruttatori, uomini o donne che siano.
Una donna sfruttata è nostra amica, laddove una donna sfruttatrice non lo è, e lo stesso si può dire naturalmente per gli uomini. Questo punto banale ma evidente, fondamentale per riappropriarsi delle categorie del conflitto, tende oggi a essere defocalizzato e anzi larga parte della raison liberale si adopera con zelo per frammentare il conflitto e impedire la sua riverticalizzazione secondo la grammatica della lotta di classe del basso contro l’alto.

RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro